Una sera di gennaio di qualche anno fa, poco prima che iniziasse il semestre nel quale avrei tenuto un seminario sull’Odissea per gli studenti del primo anno, mio padre, ricercatore scientifico in pensione allora ottantunenne, mi chiese, per ragioni che sul momento pensavo di aver compreso, di poter seguire il mio corso e io gli dissi di sì. E così per sedici settimane fece una volta alla settimana il lungo viaggio dalla casa nei sobborghi di Long Island dov’ero cresciuto, una modesta villetta a piani sfalsati in cui lui e mia madre continuavano ad abitare, fino al campus di Bard, il piccolo college sulla riva del fiume dove insegno.
di Giuliano Gallini
Per parlarci dell’Odissea, Daniel Mendelsohn, scrittore e critico letterario statunitense, ricorre a due cornici: il rapporto con i suoi studenti e quello con suo padre.
Il libro si apre, rispettoso della struttura del racconto epico, con un proemio che presenta il contenuto dell’opera, la sintetizza, e ringrazia muse e archetipi ai quali il poeta si è ispirato.
Dopo il proemio il libro continua con il capitolo Telemachia (i primi quattro capitoli dell’Odissea), cui segue Apologoi (avventure), Nostos (ritorno a casa), Anagnorisis (riconoscimento) e Sema (il segno). In ogni capitolo il racconto dell’Odissea e l’interpretazione dei suoi passaggi più difficili è accompagnato dalla voce del padre e degli studenti, che a volte contrastano quella dell’insegnante ma più spesso la affiancano, offrendo a noi lettori più punti di vista sulla storia raccontata da Omero.
L’Odissea secondo Mendelsohn è una storia d’amore e di fedeltà (Calipso promette a Ulisse l’immortalità se rimane con lei a Ogigia, ma lui decide di tornare da Penelope); di padri e figli (non solo è centrale il rapporto tra Telemaco e Ulisse, ma anche tra Ulisse e Laerte); di viaggio (e della circolarità di certi viaggi che non finiscono mai e che non vanno da nessuna parte); di coraggio, astuzia ed errori; di mondo e oltre mondo; di uomini, donne e dei. È una composizione ad anello come molte opere della letteratura greca, dove il narratore interrompe la storia per andare a un momento precedente che aiuta a spiegare un certo aspetto della storia che sta raccontando, e in questo è molto del suo fascino.
Sono così tanti i contenuti nascosti nelle avventure di Ulisse – e che Mendelsohn insieme agli studenti e a suo padre ci svela – che è difficile scegliere qualche esempio. A me è piaciuta la discussione intorno al termine “homophrosyne”, letteralmente buona concordia. Qualcosa di più di buona concordia: ciò che si condivide profondamente con una persona. È il pensare allo stesso modo, è la qualità che non può mancare nella relazione riuscita tra due persone. Quando il docente Mendelsohn comincia a parlarne c’è una scena molto divertente. Suo padre lo interrompe e tra lo sbigottimento generale si mette a cantare una canzone popolare dei suoi tempi, For You’re the Lover I Have Waited For…
È Omero secondo Johnny Mercer. C’è una sola persona che il destino ha in serbo per te, e nessun’altra può prenderne il posto.
Dopo questa interruzione Mendelsohn riprende la lezione e chiede come faranno Ulisse e Penelope a riconoscersi ora che sono tanto più vecchi di quando lui è partito. Forse con l’homophrosyne?
L’aspetto fisico può cambiare col tempo ma nessuno può toglierti… cosa? Nel suo angolino mio padre era diventato serio. Nessuno può toglierti quello che sai, disse. I ricordi.
Mendelsohn a questo punto della sua narrazione intreccia sempre di più i temi dell’Odissea con il progressivo, nuovo, riconoscimento reciproco tra lui e suo padre. È molto abile nella scrittura di questo ordito: la fusione tra il racconto di Odisseo (Ulisse) e quello dell’amore rinnovato per il padre non è mai artificiale. Entrambi i piani del romanzo si danno forza uno con l’altro e alimentano una esperienza di lettura profonda ed euristica.
Ma, tornando all’Odissea: ho trovato memorabile come Mendelsohn racconta tutte le sfaccettature dell’episodio dei Ciclopi. Sappiamo che Ulisse dichiara di chiamarsi Nessuno e che così, con l’inganno, riesce a ferire Polifemo e a fuggire dalla grotta. Ma è un inganno molto vicino alla verità, perché in greco il suono ou-tis, nessuno, assomiglia molto al suono della parola “Odisseo”; e quando i ciclopi vicini chiedono al compagno ferito se qualcuno ti uccide, quel “qualcuno” in greco si pronuncia me-tis in modo molto simile al sostantivo “metis”, che significa intelligenza ingannatrice. È con un gioco di parole che l’uomo Odisseo, quindi, sconfigge il bruto Polifemo; è l’incapacità di ascoltare attentamente che mette nei guai il ciclope. Ma non basta. L’episodio si conclude con un colpo di scena, con l’errore fatale di Ulisse.
I greci issano le vele e si allontanano dall’isola dei ciclopi, ma quando sono ancora a portata di voce l’eroe si volge a sbeffeggiare la creatura sconfitta dalla sua ingegnosità. Lo stuzzica più volte, nonostante le suppliche del suo equipaggio, fino a quando gli grida:
Ciclope, se qualcuno dei mortali ti chiede
della spaventosa ferita all’occhio, rispondi
che te l’ha fatta Odisseo, distruttore di rocche
figlio di Laerte, che abita a Itaca.
Ascoltami, Poseidone dai capelli scuri, signore della terra:
se sono tuo veramente, se ti vanti d’essermi padre,
concedimi che non torni a casa Odisseo, distruttore di rocche,
figlio di Laerte, che abita a Itaca;
ma se è destino che riveda i suoi cari
e che torni alla sua bella casa e alla sua patria
vi giunga tardi e malamente, dopo aver perduto tutti i compagni,
su una nave altrui, e in casa trovi sciagure
Mio padre a questo punto disse: A salvarlo sono la sua ingegnosità e i suoi inganni, ma alla fine le sue spacconerie su quant’è furbo lo mettono in guai anche peggiori. Prima di iniziare a raccontare ai Feaci tutte le sue storie si vanta della sua intelligenza, e con ciò firma la sua condanna. È uno sbruffone. Per quanto sia ingegnoso e per quanto le sue storie siano appassionanti, la sua personalità è un vero problema