Tengo sul comodino alcuni libri, letti e riletti, che certe sere (quando sono particolarmente felice, o infelice?) riprendo in mano per mezz’ora, un’ora, tornando a loro. E mai mi tradiscono.
Naturalmente non sono molti (il comodino già scricchiola) e raramente ne aggiungo uno. Ormai sono quelli, io sono quel che sono. L’ultimo che ho aggiunto è Pedro Páramo di Juan Rulfo. L’ho conosciuto grazie a Marco Cavalli, critico letterario vicentino, che gli ha dedicato una delle sue memorabili lezioni alla libreria La Forma del Libro di Padova.
di Giuliano Gallini
Pedro Páramo non è solo un romanzo ma è il romanzo da cui ha tratto ispirazione e legittimazione la letteratura latino-americana del Novecento. García Márquez, Julio Cortázar, Carlos Fuentes, Álvaro Mutis hanno dichiarato il loro debito nei confronti di Juan Rulfo.
La loro voce è stata possibile grazie alla voce costruita per la peripezia di Juan Preciado, il protagonista di Pedro Páramo. Grazie a questo libro uscito nel 1955 la letteratura latino-americana ha trovato la propria originale intonazione, liberandosi dai condizionamenti delle altre letterature.
Juan Rulfo, nato nel 1918 a Sayula in Messico e morto nel 1986 a Città del Messico, ha pubblicato, oltre a Pedro Páramo, solo la raccolta di racconti Pianura in fiamme, uscita due anni prima. Dopo Pedro Páramo, più niente.
«Juan Rulfo, fingendo un gesto massimo di realismo, porta i suoi racconti a liberarsi di storia e cronologia per creare un paesaggio universale della condizione umana». Così scrive Ernesto Franco nella prefazione all’edizione Einaudi del 2012 di Pianura in fiamme. Pubblicata per la prima volta nel 1955, due anni prima di Pedro Páramo, questa raccolta di 17 racconti ci trasporta nel mondo di Juan Rulfo, in un Messico rurale e post-rivoluzionario costantemente in bilico tra sogno e realtà, avvolto da un’atmosfera onirica che getterà le basi del realismo magico della letteratura ispanico-americana.
Venni a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Páramo, abitava qui. Me lo disse mia madre. E io le avevo promesso che sarei venuto a trovarlo quando lei fosse morta. Le avevo stretto le mani per farle capire che lo avrei fatto; lei era pronta a morire e io a prometterle qualsiasi cosa.
Quando Juan Preciado arriva a Comala, un posto triste e desolato «nel tempo della canicola, quando l’aria d’agosto soffia bollente, avvelenata dall’odore putrido delle saponarie», ricorda le parole di sua madre:
Lì c’è, dopo il passo di Los Colimotes, la vista più bella di una pianura verde, e anche gialla per il mais maturo. Da quel luogo si vede la Comala che imbianca la terra e che durante la notte la illumina.
Ma scoprirà invece che Comala è un paese distrutto, cadente, sospeso tra la vita e la morte, livido, abitato da spettri e condannato alla riapparizione continua dei soprusi che la popolazione ha subito proprio da colui che Juan Preciado sta cercando, da suo padre, padrone del paese, violento e abietto, osceno nel suo rapporto con le donne. «Lei conosce Pedro Páramo?», domanda Juan Preciado a un mulattiere che incontra lungo la strada. «Pedro Paramo – è la risposta – è morto molti anni fa».
Pochi autori sono riusciti, come Juan Rulfo, a raccontare il sopruso sociale e il deserto morale che ne deriva. La violenza gratuita. La sottomissione di un popolo intero al potere arbitrario del corpo del despota. Piccolo despota in questo caso, perché piccolo è lo spazio geografico della sua satrapia, ma gigantesco perché capace di colmare ogni luogo dei sottomessi, compresa l’anima.
Solo Susana San Juan, una tra le tante donne stuprate da Pedro Páramo, ha saputo opporvi resistenza, ricorrendo all’esilio nel sogno: là Susana San Juan è libera, là Pedro Páramo non riesce a entrare, là Susana San Juan può vivere anche se il suo corpo è prigioniero di “un recipiente di argilla che si mette sopra la brace”, che è anche il significato letterale del nome del paese, Comala, uno spazio reso asfissiante dalle atrocità di Pedro Paramo.
Ma nel romanzo ancora più costitutiva e incomparabile è la capacità di Rulfo di disperdere il tempo, e con esso i termini che lo istituiscono, la vita e la morte. Disperdere e rendere contemporaneo. Il passato e il presente convivono nelle sue pagine, e a questo risultano concorrono senz’altro precise pratiche narrative, come la costruzione non cronologica del racconto e la parola poetica essenziale, ma non solo. C’è di più in questo miracolo, ma è difficile se non impossibile definirlo razionalmente.
Ogni episodio potrebbe, in Pedro Páramo, non essere mai accaduto, o potrebbe ripetersi, o potrebbe rivelarsi il ricordo di un sogno che faremo nel futuro.
Adesso ero qui, in questo paese silenzioso. Sentivo cadere i miei passi sopra le pietre rotonde con cui erano lastricate le strade. I miei passi vuoti, che ripetevano il loro suono nell’eco dei muri colorati dal sole del tramonto… Mi rammentai quello che mi aveva detto mia madre: là ti sentirai meglio. Sarò più vicina a te. Troverai più vicina la voce dei miei ricordi che quella della mia morte.
È un libro per...
… chi ama oltrepassare le porte del tempo. Capolavoro.