Mi sono risvegliato il 17 febbraio, ho letto la data su un orologio con datario attaccato alla parete di fronte; sono in un luogo per me completamente alieno, una stanza dotata di monitor, tanti fili e tubi che partono dal mio corpo, tanti bip.
Sotto l’orologio una porta a vetri, quando entra qualcuno suona un cicalino e si accende una luce verde. È come se bussassero, anche se non sarei in grado di dire avanti.
Ho messo a fuoco davanti a me il volto di una donna ricoperto da una mascherina chirurgica e ho sentito la sua voce; pronuncia parole che mi hanno completamente tranquillizzato in quel momento: «Ciao papà. Va tutto bene, ti sei risvegliato. Va tutto bene, non la stacco la spina», poi mi sono di nuovo ‘addormentato’ senza capire di chi fosse quella voce.
Nelle settimane successive sono stato a tratti vigile verso gli altri, ma sempre più presente a me stesso. Ho capito che sono in un letto della rianimazione, me lo ha detto uno di quelli che ha bussato ed è entrato senza aspettare il mio avanti, con una schiera al seguito. Anche lui con la mascherina. Deve essere uno importante per come parla: «Stiamo meglio, vero? L’intervento è andato bene, per ora resta in rianimazione per prudenza».
L’esperienza dopo il risveglio è un’esperienza limite; ciò che senti, provi, osservi dalla tua postazione, immobile per giorni, ore, minuti lunghissimi, è molto intenso. Ho voglia di un bicchiere d’acqua frizzante, perché le bollicine non sono immobili e sembrano già vita. Faccio (io o la macchina?) un sospiro di sollievo, quella che mi chiama papà entra nella stanza con il camice verde, i guanti e tutto il resto.
Non la riconosco, ma è il viso di chi voglio vedere e avere vicino. Il suo arrivo scandisce anche il passare del tempo; è un nuovo giorno, significa che quell’ora successiva con lei trascorrerà un po’ più piacevolmente e forse velocemente. Sento la sua voce che mi parla, ma non capisco il senso delle parole. La sua mano guantata sulla mia mi da calore.
Osservo i medici e gli infermieri che si alternano con i loro turni, uno dopo l’altro vicino al mio letto: monitorano, mi somministrano medicine, scrivono al pc. Il respiratore e l’aspiratore di catarro sono grandi amici, mi danno l’aria. La nutrizione dal tubo nella trachea è fastidiosa, ma necessaria, l’infermiere che la somministra fa spesso lo spiritoso: «Ingegnere, oggi menù a 5 stelle».
Chissà perché mi ha chiamato ingegnere.
I rumori sono ripetitivi; quando suona l’allarme accorrono medici e infermieri, armeggiano intorno al mio corpo fin quando non smette di suonare. Allora entrano senza bussare; con l’allarme la porta si apre automaticamente per permettere l’ingresso di aggeggi vari di pronto soccorso. La sensazione di nausea e vomito è costante; mi sembra di avere sempre lo stomaco pieno, ma se mi massaggiano i piedi e le gambe per un poco dimentico questa sensazione.
I massaggi li fa anche quella che dice di essere mia figlia, si chiama Claudia.
Un giorno durante l’ora di visita mi ha detto il suo nome e mi ha chiesto se l’ho riconosciuta. Ho annuito giusto per farla contenta.
Ho la testa vuota, prima del 17 febbraio vuoto assoluto.
Non so chi sono, nulla di nulla.
Claudia mi massaggia le gambe con una crema e mi dice: «papà, senti che buon profumo»; il massaggio è bellissimo; il profumo non lo percepisco, ma non riesco a farlo capire. Il foro nel collo è insopportabile. Dal foro esce la cannula e quando c’è catarro, se lo aspirano un po’ in ritardo rispetto a quando avrei voluto, che fastidio. Spesso sono insofferente. È un piacere quando mi lavano i denti, la sensazione fresca, una vera gioia della vita. Una gioia della rinascita è stata quando due infermieri mi hanno aiutato a stare seduto per la prima volta e sono riuscito per qualche secondo a tenere su la testa, non ciondola più. Anche se è suonato l’allarme e mi hanno dovuto rimettere subito sdraiato, è stata una gioia della vita essere riuscito a tenere la testa dritta sul collo e guardare avanti, dritto negli occhi di chi mi sta incitando e dice «bravissimo». È stata una gioia della vita vedere che posso muovere le mani.
Ci sono persone sempre molto diverse che si occupano di me; provo simpatia o antipatia, come se fossi là fuori, nel mondo, e lentamente li riconosco con i loro modi di fare, un po’ con la loro storia, perché mentre mi puliscono e mi manovrano si raccontano cosa hanno fatto il sabato sera o quando sarà la cresima dei loro figli. Io non parlo perché non posso, anche se avrei voluto dire tante cose e rispondere alle battute. Mi lavano con le spugne, perfetti sconosciuti, mi vedono tutto nudo, nessuno sembra imbarazzarsi tranne me. Il catetere, mettetelo al primo tentativo, vi prego, penso e spero. Mi sporco come un bambino piccolo, ma mi rendo conto di essere un vecchio che ricomincia a vivere solo grazie alla macchina alla quale è collegato.
Comunico per la prima volta con le lettere o con matita e foglio per scarabocchi, proprio come i bambini. Ascolto mia figlia, quello che ha da raccontarmi, quel che succede là fuori, quello che sta leggendo nelle mie carte. Parla con il neurologo ed esagera i miei piccoli miglioramenti; parla della “biscia”, dell’“anaconda”: sono i nomignoli con cui mi chiamano amichevolmente alcuni miei curanti perché muovo continuamente le gambe, effettivamente quei due nomi un po’ mi rappresentano in questo momento.
La notte dormo, ma è piena di incubi, sogni, allucinazioni, storie strampalate che forse hanno qualche elemento di verità della mia vita prima del 17 febbraio.
Un’immagine, un suono, ricorrente, bussano alla porta, premo un pulsante sulla scrivania, avanti o attendere a seconda dei casi. Una volta potevo scegliere, ora non è possibile, bussano solo per attivare l’apertura automatica ed entrano senza il mio permesso.
La bellezza della vita ora là dentro è stupirmi della mia voce che ritorna improvvisamente in modo incontrollato; la bellezza è sapere che ho mangiato uno yogurt alla banana dalla bocca, non dal tubo nella trachea, e che ho risentito il sapore delle ciliegie che mi ha dato da mangiare mia figlia, dopo averle frammentate. Nel letto posso fare tante cose: pensare, osservare, dormire, piangere, emozionarmi, sperare, pregare, comunicare, muovere su e giù lo schienale del letto automatizzato (che è un gran bel passatempo quando di notte non dormo). Sono impotente, ma non totale. Sono ancora vivo e qualcosa posso ancora fare.
I giorni li conto dal calendario sul muro; è arrivata la primavera, me lo ha detto Claudia una mattina appena entrata. Mi ha detto che mi hanno “rimesso in sesto”, che tutte le funzioni vitali sono a posto.
Sarà, ma per me tutto è iniziato il 17 febbraio. Prima è tutto nero.
Muovo le mani e le gambe. Claudia mi ha detto che ho iniziato una lunga via che non sarà priva di ostacoli, ma che imparerò di nuovo a vivere, a vedere me stesso, gli altri, le cose, a capire e a ricordare.
Mi ha detto: «sei come un uccellino con le ossa rotte e devi imparare a volare».
Mi hanno spostato di stanza; l’infermiere mentre mi trasportava mi ha sussurrato: «Stai meglio».
In effetti muovo braccia, gambe e la testa, ma per respirare sono sempre attaccato ad una macchina.
In questo nuovo reparto vivo come dentro un acquario, due file di quattro letti su due lati del salone a rettangolo, agli altri due lati una parete a vetri e un finestrone che affaccia in un viale alberato.
Ora mi rendo conto che la vita si svolge anche al di fuori, anche se la mia vita per ora si svolge qui dentro.
Si tratta di aspettare di poter tornare a far parte di quel “fuori”. Nel frattempo, la cosa più importante, oltre al respiratore, ai farmaci che non mi fanno sentire i dolori, oltre agli esami clinici che scandiscono le giornate più movimentate, quello che per me è fondamentale è la presenza umana. La vicinanza umana e la compagnia di chi mi ama e di chi si occupa di me in queste circostanze così estreme sono state la mia linfa vitale: mia figlia, i medici, quelli con i camici verdi, e gli infermieri, quelli con i camici azzurri, e ogni tanto il primario di bianco vestito.
Sono consapevole di essere ritornato a vivere, ma sono anche consapevole che ho perso completamente la memoria.
Claudia mi ha portato un aggeggio rettangolare è un I pad; mi ha detto che tante cose in quel coso ci sono per merito mio.
Ho dimenticato come si usa. Mi insegna, apprendo in fretta.
Dentro c’è tutta la mia vita, mi ha detto Claudia.
Mi ha fatto guardare nello specchio, ma non mi sono riconosciuto.
Quel tizio nell’IPad che mi somiglia è un perfetto sconosciuto.
Claudia mi fa tante domande sulle storie che ha saputo di me, che ha letto nei miei diari trovati nella mia scrivania.
Non le so rispondere, la mia memoria è stata formattata; ecco, ho usato un termine da computer, qualcosa torna in mente.
Leggo in quello strano libro le storie di un altro me che non conosco e non intendo conoscere.
Leggo storie di persone che non rammento di aver conosciuto e che non voglio neanche ricordare.
Non rammento nulla di quello che è accaduto prima del mio risveglio. I miei ricordi sono stati cancellati da quel cialtrone dell’anestesista.
Il neurologo ha detto a Claudia che deve stimolare i miei ricordi, lo fa ogni giorno, inutilmente.
L’altra notte ho sognato una palla nera che scivolava lenta sul panno verde e si fermava sul bordo della buca. Ho raccontato il sogno a Claudia.
È felice:«Vedi? cominci a ricordare.ami giocare a bigliardo, quella del sogno è l’ultima palla in gioco da imbucare per vincere».
Mi sa che l’ultima palla nera non l’ho imbucata e ho perso la partita.
Sono tornato a casa, mi muovo su una sedia a rotelle, uso il computer per comunicare.
Sono seduto qui in poltrona. Guardo la tv, ascolto musica, non riesco a fare altro. Posso solo aspettare che qualcuno bussi alla porta.