Gli uccelli vanno a morire in Perù | Paolo Di Fino

È morta.
Cazzo, alla fine l’ho fatto. L’ho uccisa. Eppure, l’amavo. Immensamente.
Sono mesi che mi scervello su come uscirne. Su che dire a tutti. Basterà «Se n’è andata?».
Sono esausto. Puzzo di cane bagnato.
Ho bisogno di chiudere gli occhi. Soltanto un minuto.

***

Porca puttana, sono già qua.
Me li aspettavo, ma non così presto. Per svegliarmi a momenti buttano giù la porta. Nelle orecchie, ho una sfilza infinita di fischi assurdi, sembrano le grida d’una donna che viene pugnalata.
Sarà stata quella stronza di Camilla a chiamarli. Ci mancava solo che la sua migliore amica venisse a vivere qua a fianco. Chissà se ci ha mai visti assieme?
Come fossi invisibile, o non l’avessi notati, i poliziotti mi passano e ripassano davanti. Continuano a studiarmi.
Devo strizzare gli occhi. Cacciare almeno una cazzo di lacrima.

***

Stanno rovistando ovunque. Non hanno saltato manco un cassetto.
Non troveranno nulla. Non sono così coglione.
Alla prima pausa, si degnano di dirmi che, tra poco, due ispettori saranno qui per farmi delle domande. Io penso solo a quando potrò togliermi ’sto tanfo di dosso. Per ora non mi danno modo di muovermi dal divano.
Poi vengo distratto dall’ennesima seccatura: uno dei tanti rompipalle che affollano il mio salotto, scatta decine di foto. A me. Ai miei vestiti. E a tutto ciò che è nella stanza disordinata.
Quella merda di flash mi acceca per bene, ho milioni di pulci grigio fosforescente che mi ballano davanti.
Devo tenere gli occhi chiusi, oppure vomito.

***

Eccoli. Sembrano Gianni e Pinotto.
Quando gli ispettori fanno il loro ingresso in casa, ho la certezza che sia stata Camilla.
Sta sul pianerottolo, dietro di loro. Sbraita. «Sei stato tu!», mi urla quella ficcanaso invidiosa, mentre un paio d’agenti la trattengono a stento. «Ma non la passerai liscia!».
Invece, sì che lo farò.
Per fortuna mio figlio non deve assistere a tutto ciò. Quando le ho detto che lo lasciavo un paio di settimane da loro, pure quella santa di mia madre mi ha chiesto se era tutto ok. Da come mi ha guardato, mentre, muto, mi tiravo dietro la porta, immagino non mi abbia creduto.
Eccole, le lacrime. Stronze. Mi servivate un quarto d’ora fa.
Ho gli occhi così gonfi che ci vedo a malapena.

***

Pinotto si è avvicinato per offrirmi un fazzoletto di carta. Non ho mai sentito un alito più pesante. Dice che devo andare in commissariato con lui e il suo collega. Chiedo perché, più per sondare cosa sanno.
«Per capire meglio, signor Doni», mi liquida il nano dal fiato tossico.
Prima che scendiamo le scale, la cornacchia sui tacchi a spillo mi centra in piena faccia con il suo sputo infame e rancoroso. Non rispondo alla provocazione. È quello che vuole.
So che devo restare impassibile. Il piano è tutto qua.
Avrò tempo per vendicarmi. Devo convincermi fino allo sfinimento che la vittima sono io.
Strofino gli occhi e pulisco il viso con il fazzoletto di Pinotto. Almeno questo sa di lavanda.

***

In strada c’è tutto il condominio, se non l’intero quartiere. Mi fissano come fossi un mostro.
Stanno lì, sulle punte dei piedi, smaniosi di farsi vedere o intervistare dai giornalisti. Immagino le cazzate.
«Mi spiace tanto. Erano una coppia bellissima».
«Poveretto, non se lo meritava».
«Io lo sapevo che sotto sotto quella era una poco di buono».
«Macché! È stato lui a costringerla».
Bravissimi. Più grandi le sparate e meno loro capiranno.
Per farmi salire in una delle auto blu, mi tengono giù la testa. Nel ruotare il capo, mi pare di scorgere Emma nascosta tra la folla.
Cazzo, perché è qui? No, così non va. Non dovrebbe stare qui.
Ha gli occhi strani. Vuoti. Pare abbia pianto. Per un attimo ho avuto come un’allucinazione: lacrime di sangue che le colavano lungo le guance. Una sorta di Madonna di Civitavecchia bis, mi dico. Pessima battuta. Eppure, nonostante il casino in cui sto, sento le mie labbra stirarsi d’un mezzo centimetro. Subito lo camuffo dietro una smorfia enigmatica stile Monna Lisa.
Accecato dal lampeggiante blu che mi mulina a pochi centimetri dal viso, la perdo di vista.

***

Finalmente Gianni si rende utile: ho gli occhi in fiamme, e lui mi ha trovato un merdoso collirio.
Ci mancavano solo i neon sparati di questa cazzo di sala interrogatori.
Gianni e Pinotto confabulano tra loro come se, di nuovo, non esistessi. Fumano e sorseggiano caffè manco fossero seduti al Canova di Roma. A me lasciano gli odori.
So bene che vogliono farmi irritare, vedere se mi frego con le mie mani. Col cazzo!
Li osservo divertito, e mi sforzo di non sbottargli a ridere in faccia.
Com’è il detto? Dio li fa e poi li accoppia? Di certo con questi due ha esagerato.
Il nano in sovrappeso puzza di cadavere, ed è vestito con roba da mercatino delle pulci.
Lo spilungone pelle e ossa, invece, profuma peggio d’una puttana, e indossa un originale completo blu navy che, ci scommetto le palle, è cucito a mano.
Saranno passati dieci minuti dall’ultimo round a urla e minacce. Ancora non mi hanno cavato nulla.
Al prossimo round torneranno ai guanti bianchi.
Butto giù altre quattro gocce di collirio. Così, almeno per un po’, spariranno entrambi dalla mia vista.

***

«Vede, signor Doni», riprende Gianni, affabile, di fianco a me. È seduto sul tavolo che ho di fronte, con un piede a terra e l’altro poggiato alla mia sedia. «Lei ci ha ripetuto ogni volta le stesse cose. Non dico che non le credo. Ma così è difficile riuscire a venirne a capo. O a trovare qualcosa che confermi la sua versione».
«Ma neanche che la neghi», rimarco io.
«Dice che sua moglie è all’estero con un collega per lavoro…».
«Così mi ha detto Lucia prima di partire».
«Però, non risulta partita da alcun aeroporto». L’ispettore nel dirlo fa spallucce e allarga le braccia. «E, dove la signora lavora, non esiste alcun Tommaso Riva, né erano a conoscenza di un imminente viaggio di lavoro».
«Avrò capito male il nome», li liquido stavolta io.
«Conosce la signorina Camilla Berni?», m’incalza Gianni, piegandosi verso di me fino a intossicarmi con il suo profumo, di sicuro un concentrato di spezie orientali.
«Difficile non notarla, soprattutto quando sputa». Giro la testa di lato in cerca d’aria neutra.
«La signorina Berni ci ha raccontato tutta un’altra storia».
«Molto dettagliata», sottolinea indignato Pinotto, appollaiato sulla sedia di fronte a me, mentre sfoglia a casaccio dei fascicoli che ha davanti. Per fortuna ci divide una scrivania metallica color verde pisello, se no credo che il mix di alito pesante e spezie orientali per il mio stomaco sarebbe fatale.
«Allora chiedete a lei». Abbasso lo sguardo e scosto la sedia indietro per evitare residui tossici.
«Non si preoccupi, lo faremo», grugnisce il nano e alza lo sguardo dai fogli come volesse fulminarmi sul colpo.
«E, invece, conosce una certa Emma Sala?», torna a chiedermi a bomba Gianni, nel frattempo lancia uno sguardo di rimprovero al collega.
«No. Dovrei? Fa parte pure lei delle fantasie della Berni?».
Nessuno mi risponde. I due si alzano all’unisono. E se ne vanno senza aggiungere altro.
Il quinto round è andato. Forse un pareggio.
Resto a fissare i neon sopra di me. È come venirne ipnotizzato.

***

Imbambolato dal bianco fluorescente dei tubi di neon, ripenso a un mese fa. Quando è crollato tutto. Riguardavo con piacere alla tv Secret Window, un vecchio thriller. E ho iniziato a fantasticare come al solito.
Come si fa a far sparire le persone? Pare facile. Però se ne accorgerebbero. Sì, ma dopo quanto?
Per Johnny Depp è stato facile: aveva un campo di pannocchie. E lo sceriffo era un coglione.
Io dove cazzo lo trovo un campo di pannocchie vicino casa mia?
Mi sono sempre sentito una merda. Lo so che non si possono amare due donne allo stesso tempo. E so che con Emma, alla fine, non è amore. È una roba molto più fisica, e perversa. Non volevo, ma è successo. Avevo bisogno anche di quello.
Amo Lucia. Da sempre. Ma con lei non è più come una volta. È sempre incazzata, scontrosa. E mi tratta come una nullità. L’hanno visto tutti. Però è la madre di mio figlio.
Quando ho conosciuto Emma, ho fatto di tutto per evitarlo. Ma era già scattato tutto al primo sorriso.
E la sua vivacità mi ha fatto tornare a sentirmi vivo.
Però Lucia è il mondo per me. Siamo cresciuti insieme. Nel bene e nel male.
È stato da quella sera che ha iniziato a mancarmi ogni volta l’aria. Mi ronzava la testa. Ho finito per passare le notti in bianco. Finché una mattina sono svenuto nella doccia.
Non ricordo nulla, tranne il peso incessante dell’acqua, ormai gelida, sulla mia schiena. Ma la vera pesantezza veniva da dentro. Mentre mi vomitavo addosso pure le budella, ho capito che dovevo fare.

***

Il duo torna alla carica.
«È ancora dell’avviso di non voler chiamare un avvocato?», anticipa Gianni dopo aver chiuso la porta alle sue spalle. Annuisco.
«Be’, signor Doni, allora vuole cambiare qualcosa della versione di dove sia sua moglie?», sibila Pinotto, mentre riprende posto di fronte a me, simile a un lottatore di sumo pronto ad attaccare.
«No, io non lo so. Speravo lo scopriste voi».
«E perché allora non ci ha chiamati lei?».
Evito di gesticolare, non aspettano altro che un segno di nervosismo. «Abbiamo litigato, prima che partisse. Ogni coppia ha i suoi alti e bassi. Aspettavo tornasse per chiarire».
«Per cosa avete litigato?», chiede Gianni puntandomi addosso gli occhietti stretti come due laser.
«Avevo trovato dei messaggi strani sul suo cellulare. Volevo delle spiegazioni».
«Sì, il cellulare…», fa Gianni, si gratta la tempia destra, e mi gira attorno con degli stampati nell’altra mano. «Abbiamo controllato i tabulati. In effetti, c’è un numero che si ripete e di cui non riusciamo a risalire al proprietario».
«C’è altro?», chiedo con fare distaccato.
«Perché ha lasciato suo figlio dai suoi?», sbotta di colpo Pinotto. Nonostante il gelo nella stanza, la sua fronte inizia a imperlarsi.
«Proprio per poter chiarire con Lucia».
«Ma lei è sparita da tre giorni. L’ha almeno cercata?».
«Soltanto al cellulare, sono stato male. Purtroppo, ho una malattia infame», sospiro e fisso il soffitto.
«Cazzate!», ringhia Pinotto e si passa con rabbia un fazzoletto sulla fronte. «Come che non conosce Emma Sala…».
«Ripeto, non la conosco. Però, da come reagisce ispettore, mi sa che lei sì. O che per lei sia più una questione personale… In quel caso, non sarebbe un conflitto d’interessi?». Stavolta lo fulmino io.
Lui mi urla: «Fatti i cazzi tuoi!». Poi, con una mano, rovescia la scrivania che rimbalza con fragore, e mi arriva a un millimetro dal naso. Resta lì, ad alitarmi veleno addosso, finché Gianni non lo trascina a un angolo della stanza e tenta di calmarlo.
È arduo non vomitare. La puzza di topo morto mi si è cacciata in fondo alla gola. Non riesco a farla sparire, manco tossendo. «Scusate, posso avere un goccio d’acqua?», chiedo rauco tra due colpi di tosse.
«Aspetti!», mi ordina, per la prima volta stizzito, Gianni di spalle. È troppo concentrato sul far sbollire Pinotto. «Che fai? Che avevamo detto? Se non te la senti lascia fare a me».
«No, no, ce la faccio. È passata. È che se ripenso a… cazzo!», urla all’improvviso Pinotto. Si schiaffeggia tre volte le guance paffute, finché sembra tornare mansueto. «È quel sorrisetto falso da pretino che mi manda in bestia», dice ancora a voce alta, proprio per farsi sentire.
Mi trattano ancora come l’uomo invisibile. Me ne frego. Tossisco di nuovo. Più che altro per mettere il dito nella piaga, per far saltare i loro di nervi. «Acqua, vi prego non respiro». Alzo la voce anch’io.
Gianni apre la porta e sbuffa uno scocciato: «Sì, sì, ho capito! Vado». Si ferma sulla soglia. Torna a fissare il collega. «Te non ti muovere da lì. Fallo per lei».
«Ok, vattene. Ma sbrigati a tornare che finiamo ’sta pagliacciata».
Gianni annuisce, esce, e sbatte la porta fino a farla tremare.

***

Siamo soli. Pinotto e io. Cane e gatto.
Mi fissa. Pare un bulldog in allerta. Voglio vedere quante palle ha.
Sbadiglio e, stiracchiandomi a braccia alte, lo provoco, tossisco un inconfondibile: «Coglione».
Subito gli vedo il sangue salire agli occhi. Prende velocità, come fosse l’uomo cannone. Scavalca una gamba della scrivania rimasta a terra, e mi salta alla gola. Cadiamo all’indietro, spaccando in due la sedia di plastica e metallo dove ero seduto. Picchio duro con la testa sulle mattonelle del pavimento.
Sento mancarmi del tutto l’aria, le sue mani bollenti che mi stritolano il collo.
Urla frasi sconnesse. O sono io a non afferrarle.

***

Pinotto continua a scuotermi come un pungiball. Oscillando, sbatto altre volte a terra. Sento fracassarsi qualcosa, forse qualche piastrella, forse la mia testa.
La vista viene oscurata da un denso rosso bluastro.
Resto intontito. Mi sento svenire. E il suo alito non aiuta.

***

Proprio l’alito. D’un tratto cambia. È meno pestilenziale. Sa sempre d’amaro, ma ha qualcosa di familiare. Come di risveglio mattutino. La testa vortica più della stanza. Non faccio in tempo a comprendere.
Mi chiedo se ho gli occhi aperti o chiusi. Le palpebre sembrano pesanti come vecchie saracinesche. Eppure, è più la luce che il buio.

***

Non metto ancora nulla a fuoco, tuttavia riconosco qualcosa. Sento la pelle morbida della chaise longue sotto di me. Provo a muovermi. Ogni arto è intorpidito.
Passa un secondo di troppo prima di riconoscere la voce maschile che mi arriva dall’alto: «Signora Doni, come si sente? Le avevo detto che questa tecnologia era ancora troppo sperimentale. Soprattutto per una prima seduta», si scusa il dottor Miele, l’ultimo di una lunga lista di psicoterapeuti a cui mi sono rivolta.
Con la mano ancora mezza intorpidita, mi sfilo dalla testa lo stretto visore per la realtà virtuale, un modello di ultima generazione, comprensivo di auricolari e filtri nasali.

***

La stanza gira ancora, ma, di certo, non è la sala interrogatori. È una stanza elegante, con mobili pregiati di legno massello. Un impeccabile studiolo d’altri tempi.
La luce non è sparata da alcun neon, è più calda, un arancione melone. Eppure, dopo il continuo alternarsi di flash e blackout nel visore, rallenta il mio mettere a fuoco.
Intravedo il mingherlino che è là, di fianco a me. Mi tiene per le spalle. Sembra avere la fronte imperlata di sudore. Intuisco che deve avermi scosso più volte per farmi tornare alla realtà. Alle sue spalle, abbandonato sulla poltrona a un metro da me, noto illuminarsi un visore identico al mio.
«Sorprendente», sussurro, sforzandomi di spalancare gli occhi provati dall’esperienza.
«Davvero notevole», mi fa lui, e la sua voce, prima attraente, tradisce uno stato d’ansia. «Purtroppo, il nostro tempo è terminato. Peccato, avrei da farle tante domande…».
«Sogno liquido, o liquido ricordo…», blatero tra me e me.
«Eh?». Il dottore mi guarda assorto, mentre si tira indietro e si alza in piedi.
«Il nome del software», gli suggerisco con tono eccitato, intanto che mi metto a sedere davanti a lui. «Sarebbero perfetti entrambi. Per me è stato davvero così. Il visore, più il resto, la rendono un’immersione totale nella testa delle persone!».
«L’idea era quella: utilizzare la tecnologia per aiutarle a rivivere e superare certi traumi. Come le stavo dicendo dovremmo rivederci. Be’, se aspetta qui, prendo la mia agenda di là».
Il dottor Miele fa per muovere un passo, ma lo fermo: «Dottore, ma la sua agenda è lì, sul tavolino accanto alla poltrona», dico senza essere in grado di trattenere un sorriso. Adesso riesco a metterlo a fuoco di nuovo. Però non è lo stesso uomo visto un’ora fa. Si muove a scatti, continua a passarsi il fazzoletto sulla fronte.
«Ah, sì?», chiede con tono stupito, e guarda di lato. «Che stupido!».
«Che c’è dottore? Qualcosa l’ha turbata? Non è contento della sua tanto celebrata tecnologia?». Come tutti gli uomini è la curiosità a fregarlo. E come gli altri dottori è la convinzione di potermi aiutare, di essere in grado di comprendere, o, forse, di volermi salvare da me stessa. Brutta bestia la vanità. Quasi quanto l’ingenuità. «Alla nostra unica seduta fate tutti lo stesso errore: voler correre a chiamare la polizia».

***

Di colpo il dottore è una statua di sale, compresa la situazione, tiene lo sguardo basso e rinuncia a muoversi. «Che mi ha mostrato?».
«Un misto di sogni e ricordi», gli confido.
Il dottore, pallido in volto, di rimando sputa fuori tutto ciò che gli balena nella testa: «No, credo fosse più reale. Si vede più come un uomo? Quindi, deduco che Lucia sia Lucio, suo marito? Dov’è? Che ha fatto? Li amava entrambi, Lucio ed Emma? Signora Doni, lei chi è davvero?».
«Basta», intimo con un sorriso. «Dottor Miele, sta prendendo tempo? Ma l’ha detto lei, il nostro tempo è terminato. E, come invece le ho spiegato io, non torno mai due volte dallo stesso terapeuta. Voi ci definite vedove nere. Ma, anche in natura, niente è così semplice».
Mi alzo. Lo guardo barcollare da un piede all’altro, mentre si allontana da me. Il veleno che, di nascosto, gli ho versato nella tazza di tè a inizio seduta ha fatto effetto.
«No… non mi sento bene», balbetta.
«Non è più un problema».
Il dottore indietreggia e si accascia sulla poltrona. Vorrebbe rallentare il tutto, facendomi altre domande: «Mi ha… mi ha mentito dall’inizio, aveva detto che voleva parlarmi di un film, che il suo sogno era iniziato da lì».
«Non ho mentito, ma non era solo un sogno, e il film era un altro. Conosce Gli uccelli vanno a morire in Perù? Mi sono sempre rivista nella protagonista. E poi non crede pure lei che sarebbe bellissimo poter scegliere dove morire?».
Cerca invano di rispondermi. Ma gli occhi gli si chiudono. Faccio in tempo a stampargli un bacio d’addio sulla fronte. Getto nel camino acceso a un metro da noi la coppia di visori. Li guardo squagliarsi tra le fiamme. Poi, tenendola con le punte delle dita, do fuoco all’agenda del dottore, e la lascio cadere sul tappeto, a fianco ai suoi piedi larghi, oltremodo rilassati.
Mi chiudo la porta dello studiolo alle spalle, e scendo la prima rampa di scale.

VI SONO PIACIUTI

Servizi per gli scrittori

I nostri servizi di agenzia al servizio della scrittura. Un team di professionisti al tuo servizio.

Durante il primo lockdown imposto per arginare il dilagare dell’infezione da Covid le nostre case sono diventate un baluardo di difesa, un fortino in cui rimanere rinchiusi con i nostri pensieri, le nostre paure, il nostro umanissimo bisogno di socialità. Nel suo Diario semiserio, accompagnato dai disegni dell’amico Nino Trainito, Nino Zampieri mette in scena un vivace microcosmo domestico abitato da oggetti che parlano e interagiscono con l’unico inquilino umano, ricordandogli – e ricordando a noi che leggiamo – che l’ironia e la fantasia sono fra le dotazioni più preziose che abbiamo a disposizione.