Taptaptaptaptap.
Le mani dell’uomo volavano sulla tastiera.
Dietro le sottilissime lenti blu, occhi verdi guizzavano da una parte all’altra dello schermo.
Taptaptaptaptap.
Si fermò e rilesse le ultime modifiche.
– Non male. Davvero non male…
L’ultimo articolo era pronto.
Premette invio e sorrise.
Si allungò sulla poltrona, allungò le braccia e si stiracchiò. Poi iniziò ad aspettare. Era la parte che preferiva.
***
Dall’altra parte dello schermo un ragazzo appena ventenne stava finendo di leggere quell’ultimo articolo.
– No. Così non va. Adesso basta – pensò.
Una foto. L’uomo ritratto aveva una sessantina d’anni, capelli radi e grigi, spessi occhiali da vista e una barbetta incolta. Gli occhi, distorti dalle lenti, apparivano piccoli e inespressivi. Sorrideva. Per qualche motivo sembrava un sorriso beffardo, cattivo.
“Quest’uomo, questo pedofilo, va fermato – leggeva a bassa voce – va fermato prima che continui a fare del male”.
– Giusto, – pensò – deve essere fermato per forza.
“A qualsiasi costo. In ogni modo possibile. Per difendere le nostre famiglie, i nostri bambini”.
– Certo, giusto – continuò a dire a se stesso. Le sue mani erano sudate. Non riusciva a smettere di strofinarsele. Gli capitava sempre quando era nervoso. Da giorni la rabbia stava montando, e con quella anche la sensazione di impotenza.
Continuò a leggere.
“Le forze dell’ordine fingono di intervenire, di difenderci. Invece proteggono lui! Con i nostri soldi”.
Apparve la foto dell’auto della polizia che stazionava sotto la casa del professore.
– Bastardi! – pensò il ragazzo.
Ecco la fotografia di un altro uomo, alto, giovane, molto elegante. Presumibilmente era l’avvocato.
– Un avvocato da ricchi che mette a tacere una donna disperata.
Poi apparve la foto dell’accusatrice. Una signora sui trent’anni, vestita poveramente, che secondo l’avvocato soffriva di turbe psichiche. Il giudice sembrava avergli creduto.
“Tutte balle! Costruite dalla lobby internazionale dei pedofili”, continuava l’articolo, che poi aggiungeva: “Cosa serve ancora per fermarlo? Le denunce, le testimonianze? Volete un’altra prova?”.
– Sì, – pensò il ragazzo – sì, per piacere. Incastra quel pervertito.
Un link.
C’era un link che rimandava ad un video. Il ragazzo cliccò. Fremeva.
Si vedeva il professore, il mostro, che faceva entrare nel suo palazzo due bambini. Ad uno teneva la mano con la sinistra, mentre all’altro, più alto, aveva messo la mano destra sulle spalle.
Era un video di pochi secondi, di quelli in bianco e nero delle telecamere di sicurezza, e i ragazzi non si vedevano molto bene in volto. Lui però sembrava proprio il professore. I tre entravano dal portone che lui conosceva bene e scomparivano.
“Giorgio Lavagna, – faceva la voce che accompagnava il video, una voce forte ed autorevole – il cosiddetto professore che ha stuprato il figlio di una nostra concittadina. Quanti altri potrà molestare prima che qualcuno si decida ad intervenire?».
Il video si ripeteva in continuazione. Un loop infernale. Il ragazzo, che si chiamava Enrico, e che conosceva il professore da quando era bambino, sentì la furia montargli dentro. Unita a paura e disgusto. Quante volte gli aveva sorriso quell’uomo quando passava a comprare i giornali da suo padre in edicola? E le volte che gli aveva dato dei dolci? Cioccolatini, se ricordava bene.
Ricordava male, ma una volta non lo aveva anche toccato su una spalla, come aveva fatto con una di quelle innocenti vittime del video? No, ricordava bene. Tutta quella gentilezza, quei comportamenti paterni… tutta una tattica, una copertura per attirare i bambini.
– Sono salvo per caso, – pensò rabbrividendo.
Era tornato sulla pagina principale del post.
Il sito era uno di quelli che leggeva da mesi, uno dei più informati della rete: Cittadini all’erta.
Il pensiero di agire divenne prepotente.
– Ha ragione, occorre muoversi – disse a bassa voce.
Si alzò, prese lo zaino della palestra e lo svuotò. Dentro ci mise un paio di bombolette spray. Avrebbe scritto quello che pensava di quell’uomo sul muro della palazzina dove viveva. Lo avrebbero fatto andare via da quella casa, ecco cosa avrebbero fatto. Lui e tutti gli altri che sapevano la verità. Fece per uscire, ma all’ultimo momento sentì un suono provenire dal PC. Il campanellino che di solito lo avvisava dell’arrivo di una nuova mail.
Riguardò il post sullo schermo.
Era apparsa una nuova scritta. Strano, l’articolo sembrava finito.
Una scritta in rosso fiammeggiante.
C’era scritto: “Va fermato: con ogni mezzo possibile!”.
Poi apparvero delle immagini. Armi da fuoco, pugnali, spade.
– Non l’avevo letta – pensò.
Doveva essergli sfuggita.
Allungò una mano nell’armadio, e prese un’altra cosa. Non si sa mai.
Passò accanto alla cucina. La mamma stava pulendo qualcosa nel lavabo.
«Torno più tardi, ma’!».
«Cerca di arrivare in orario per cena», rispose la donna senza smettere di pulire.
Non la sentì nemmeno, era già per le scale.
A cinquanta metri da casa c’era lo studio del pedofilo. Doveva soltanto girare l’angolo, ma quando arrivò, scoprì che non sarebbe stato solo nella battaglia.
Molti li conosceva. Vicini. Il panettiere, uno dei baristi all’angolo, alcune signore che facevano la spesa al supermercato e compravano quelle riviste che trovava così stupide. Poi, c’erano anche altri che non aveva mai visto.
Tutti urlavano contro qualcuno.
Mise su il cappuccio della felpa e si unì alla folla. Unito a loro si sentì più forte, più sicuro.
Più arrabbiato.
Davanti a loro, due poliziotti cercavano di calmare la gente.
«Tornate a casa. Come devo dirvi che il professore non c’è?».
Il poliziotto più anziano sembrava poco convinto delle proprie parole. L’altro, più giovane, pareva quasi spaventato.
«Non se ne vanno, Ongaro. Che facciamo?».
«E che vuoi fare? Arretriamo sino alla macchina. Poi da lì chiamiamo la Centrale».
«Ma così li lasciamo entrare. Il portone è aperto e l’androne è vuoto, arriveranno all’appartamento!».
«Non è un mio problema».
«Cosa?».
«È un pedofilo, non hai visto i servizi in tv?».
«È stato accusato da una mitomane, ecco quello che ho visto. Il giudice ha detto che verrà archiviato».
Quello sorrise. Un misto di compassione e disprezzo.
«Ma hai visto in rete? Il video con quei bambini? Quello è ricco ed influente. Ha un bravo avvocato. Non sai quante ne ho viste in questi anni, di storie così. Nel dubbio io questi li metterei in galera sempre e comunque».
«Che stai dicendo?».
«Dico che in questo quartiere io non ce lo voglio. Ho una figlia piccola. Tu non sei nemmeno sposato. Non puoi capire».
Erano rientrati in macchina. La piccola folla, non più di una ventina di persone, li stava sfiorando senza toccarli. Non erano più interessati a loro.
«Ma guarda! Stanno entrando. Andrà a finire male».
«Ma no! Lo spaventeranno, così se ne andrà da un’altra parte. E poi, sai che ti dico? Se gli danno una lezione è anche meglio, così smette. Con certa gente non ci sono mezze misure».
«Io… io chiamo la Centrale».
«Adesso no».
«Come no?».
Il poliziotto più anziano guardò dritto negli occhi il collega, in modo duro. Non avrebbe ammesso alcuna protesta.
«Lasciamoli lavorare, prima».
Sorrideva. Il giovane si fermò. Confuso.
La folla entrò nel palazzo, superò il gabbiotto che il portiere aveva abbandonato da tempo, e si riversò sulle scale.
«Al secondo piano! Lo so io dove vive».
Era stato il panettiere.
Arrivati alla porta del professore, iniziarono a battere forte. Molto forte. Urlavano.
«Fateci entrare! Aprite!».
Dall’altra parte della porta la signora Viviana Casalotti, storica segretaria del professore, era impietrita dal terrore.
«Vai via da lì! – le fece Lavagna – È pericoloso».
«Io… io non so cosa fare, professore».
«Nemmeno io. La porta non è blindata, a forza di battere potrebbero anche entrare».
Le urla continuavano a salire di intensità. Offese pesanti, terribili.
«I bambini! Dove li hai messi?», urlava una donna.
«Questa… è la signora Teresi – fece Lavagna – mi pulisce i vestiti da dieci anni. Non capisco. Cosa sta succedendo?».
«È questo video», fece la segretaria, mostrando il cellulare.
«Quale? Mi faccia vedere».
La donna lo stava guardando negli occhi mentre gli allungava il cellulare. Pareva spaventata. Ma più da lui che dalla folla dietro la porta. La folla che urlava e insultava e minacciava. La folla ottusa e furiosa.
L’uomo se ne accorse.
«Cosa stai pensando? Mi conosci da una vita, lo sai che io, proprio io, non potrei mai».
«Io non so nulla, professore. Voglio solo andarmene a casa».
«Ho chiamato la polizia. Ma sono qua sotto e non stanno facendo nulla».
«Forse, se lei parlasse con quelli là fuori. Per chiarire…».
«Chiarire cosa? Non ho fatto nulla, lo ha detto anche il giudice. Io non capisco. Prima le accuse di quella donna, poi gli attacchi sulla mia pagina Facebook. L’hanno intasata di insulti. E anche il sito dell’associazione hackerato. Adesso questo video…».
Iniziò a guardarlo. Lo stupore apparve immediato sul suo volto.
«Ma questi sembrano i figli della signora del terzo piano. È roba di almeno un anno fa!».
«Se lo dice lei…».
«Che vuol dire: se lo dico io?».
«Se dicono tutte queste cose, forse qualcosa… qualcosa è successo. Magari lei non l’ha fatto apposta, professore».
«Sei impazzita?».
L’uomo era esasperato, sfatto. La segretaria fece un paio di passi indietro, e poi andò alla porta.
«Mi sta facendo paura, professore».
«Io… scusa, ma anche tu, mi accusi di cose terribili».
«Credo che adesso sia meglio che io me ne vada».
«Cosa? Ma non puoi aprire. Fermati!».
Fece un passo verso di lei. Solo uno.
«Non si avvicini, professore!».
La donna emise un mezzo urlo, e poi aprì il portone.
La folla entrò, quasi travolgendola. Lei indicò con un dito il professore, deviandoli, e mentre quelli entravano scappò via. Non riuscì ad evitare un paio di insulti violentissimi che la inseguirono lungo le scale.
«Ecco la troia che scappa!».
Se ne disinteressò. Era viva, solo quello importava. E il professore? Non erano affari suoi, in fondo. E poi, era davvero possibile che fosse colpevole. Anzi, a forza di pensarci le sembrava che non potesse essere che così. Un uomo solo, senza donne… Uscì dal portone rinfrancata. Tutto sommato, le cose stavano andando nel modo migliore. Ci avrebbero pensato loro.
Il professor Lavagna si trovò così da solo a confrontarsi con i suoi vicini.
Appena lo raggiunsero, si fermarono.
«Cosa volete?».
Era calmo, almeno all’apparenza. Doveva cercare di tranquillizzarsi. Per calmare anche gli altri.
«Vogliamo che te ne vada da qui, brutta merda!».
Era stato il panettiere. Michele, un uomo dalle mani grosse come le pale che usava quando estraeva il pane dal forno.
«Ma perché? Io non ho fatto nulla!».
«Ma lo sentite? – fece qualcuno da dietro –Ancora sta a negare».
«Cosa vuoi negare, merda! Cosa hai fatto a quei bambini?».
«Ma quali bambini?».
«A noi, quelli come te fanno schifo!».
Il panettiere gli sputò addosso.
«Michele, la prego».
«Adesso prega, il pedofilo».
Era stata la signora Teresi. Lavagna non l’aveva mai vista in quello stato, sembrava invasata. In mano aveva un pezzo di un asse da stiro. Anche altri erano armati.
La paura iniziò a salire. Non volevano solo spaventarlo.
«C’è stato un malinteso, vi dico! Io non ho mai toccato un bambino in vita mia».
«E certo, cosa vi aspettate che dica?».
«Ma ve lo giuro. Alcuni di voi mi conoscono da anni. Lei Michele, e anche lei, è il figlio del giornalaio vero? E lei, signora Teresi. Vi pare mai possibile che io possa avere fatto quelle cose?».
La folla fece un lieve passo indietro. Sembrò quasi prendere fiato, come un unico essere.
Un momento di pace.
Poi, partì un’altra voce.
«E il video, eh? Quei due bambini? Porco schifoso».
Qualcosa, forse una lattina di birra vuota, volò e lo colpì ad una spalla.
Come d’incanto la massa riprese a muoversi, e si portò di fronte al professore, schiacciandolo contro una parete.
Michele lo prese per il bavero, poi iniziò a strattonarlo. Lavagna pesava la metà di lui, aveva sessant’anni e non aveva mai fatto a pugni in vita sua. Pareva una bambola di pezza nelle sue mani.
«E allora? Hai sentito il signore? Dove li hai messi quei bambini?».
Con il tono di voce ridotto ad un sospiro, Lavagna cercò di controbattere.
«Sono… sono i figli della vicina, credo. Ma è un video vecchio, non li ho mai toccati».
«I figli della vicina… Ma credi che siamo dei coglioni?».
«Cerchiamo le prove!», urlo un’altra donna.
«Quali prove, cosa dite? Io non ho mai fatto male a nessuno».
E nessuno parve ascoltarlo.
«Giusto – fece Michele – queste merde di solito tengono video e foto. L’ho visto su Criminal Minds». Gli altri annuirono.
Poi, rivolto alla folla che l’aveva idealmente eletto come capo:
«Cercate! A questo stronzo basto io».
Lavagna vide la massa dividersi in mille rivoli. Entrarono nelle stanze ed iniziarono a mandare tutto all’aria.
Libri volarono da tutte le parti. I cassetti della scrivania furono estratti e rovesciati. Lettere, vecchie fotografie, agende, tutto finì a terra. Aperto, letto, strappato. Due donne fecero rovinare a terra una cristalliera. Frammenti di vetro e legno invasero il pavimento. Quando avvenne risero in modo selvaggio. Lavagna notò con orrore che una era la figlia della professoressa di matematica del quinto piano. Le aveva dato ripetizioni di latino solo due anni prima.
«Questa porta è chiusa a chiave!», urlò uno.
«Perché è chiusa?», fece Michele.
«È una camera privata! Non avete il diritto di…».
Quello lo colpì con uno schiaffo. Secco, a mano aperta. Il professore ammutolì. Provò meccanicamente a rimettere gli occhiali a posto dopo quella sberla, ma l’astina sinistra della montatura si era piegata, distorcendoli. Lacrime iniziarono a scendere sul suo viso.
«Sfondate la porta», ordinò il panettiere, che da quelle lacrime aveva tratto soltanto piacere.
Non ci volle molto, la serratura saltò subito sulla spinta di due uomini invasati.
Quando i primi entrarono, si sentì un silenzio improvviso.
«Allora – fece Michele – cosa avete trovato?».
«Vieni a vedere», era stato Enrico.
Sempre con il professore accanto, bloccato da una presa che pareva di puro ferro, Michele entrò nella stanza.
Era piena di giocattoli, le pareti erano colorate di rosa e su un lato c’era una vecchia culla. In mezzo faceva una splendida figura una casa da bambole enorme, di colore celeste.
«Aaahh», fece quasi deliziato. Ma gli occhi erano furiosi.
«E questo come lo spiegherà quel frocio del tuo avvocato?».
«Spiegare cosa?», protestò Lavagna.
«Questo, brutta merda di uomo!».
«Ma… ma è la stanza di mia figlia…».
«Bugiardo! – fece la Teresi – questo stronzo non ha figli».
«Voi non capite, io…».
«Tu adesso stai zitto», fece Michele.
Poi, di nuovo rivolto a tutti.
«Spaccate tutto fino a quando non avete trovato qualche altra prova».
«Ma almeno se mi lasciaste spiegare…».
«Cosa vuoi spiegare, a merda!»:
«Quei bambini nel video… io li conosco».
«Ascoltatelo. Sta confessando», fece un altro che Lavagna non aveva mai visto.
«No, che dite? Voglio dire che posso spiegarvi ogni cosa. È tutto un grosso malinteso».
«Malinteso un cazzo!».
Michele sembrava una furia. Gli occhi parevano uscirgli dalle orbite
«Mi lasci andare!».
Con uno strappo, inatteso da uno della sua corporatura, Lavagna finalmente si liberò.
Michele rimase fermo, sorpreso. Un attimo, ma bastò a Lavagna per tentare di guadagnare l’uscita.
«Posso spiegare tutto, vi dico. Basta che chiamiate la signora…».
Un piede lo centrò alla caviglia sinistra, facendolo rovinare a terra con un urlo.
«Stava scappando, l’infame!».
Quella voce bastò per far rientrare tutti gli altri dalle stanze. Lo videro a terra, ferito.
«Hai capito il professore. Parla parla, ma poi la forza gli viene fuori».
Michele si era già ripreso dalla sorpresa.
«Bravo Enrico», fece al figlio del giornalaio, che stava tirando fuori qualcosa dallo zaino. Guardava il professore in modo strano. Gli occhi erano fissi, duri.
Cattivi, ecco. Occhi cattivi.
Lavagna cercò di alzarsi.
Un calcio violento al petto da parte di Michele lo rimandò giù.
«Basta! – urlò il professore – mi state facendo male, basta!».
In risposta, la Teresi gli sputò in faccia, e poi lo colpì al volto con il pezzo di asse da stiro che aveva ancora in mano.
Gli occhiali volarono. La faccia del professore si era fatta rossa sul lato destro. Dal naso colava del sangue.
«Questo è capace che si salva anche questa volta», fece una voce da dietro.
Nessuno poi avrebbe ammesso di aver detto quella frase. Tutti però ricordarono di averla sentita, anche se per alcuni era stata una donna, per altri un uomo giovane, e per altri ancora un vecchio.
«Proprio no – rispose a bassa voce Enrico – non si salva oggi».
Alzò la sbarra di ferro che aveva appena estratto e prima che Lavagna potesse proteggersi il volto la calò con forza sul suo capo.
CIOCK!
Un rumore come di legno che si rompe.
Improvviso cadde un nuovo silenzio.
Il professore crollò al suolo sbattendo la faccia pesantemente.
TOC! Questo fu il rumore che fece nello sbattere.
Non ce ne furono altri.
Non si mosse più.
***
«Avete finito adesso, va bene?».
Era la voce di uno dei due poliziotti, quello più grande. Sorrideva mentre si faceva strada nel capannello che si era formato attorno al corpo del professore.
«Vi siete divertiti, ma adesso lo lasciate a…».
Non disse altro. Lo vide a terra, morto, con tanto di quel sangue che era schizzato da tutte le parti che c’erano almeno sei persone sporche sui vestiti o sul volto.
«Ma che cazzo avete fatto?», disse a bassa voce.
«Abbiamo eliminato un mostro», fece Enrico, con la voce piatta. La felpa nera era chiazzata di rosso.
«Giusto!», riprese Michele. Anche gli altri annuivano. Tutti insieme, come in risposta ad uno stesso stimolo. Come animali addestrati.
Erano confusi, però. Uno o due fecero per andarsene, ma l’altro poliziotto, quello più giovane, li fermò con un gesto.
Michele prese la parola.
«Abbiamo fatto bene. Stava per scappare, capisce agente? Dovevamo fermarlo».
Il poliziotto si grattò la testa con una mano.
«Forse… – fece a bassa voce – forse se foste stati costretti a difendervi…».
«È vero! – era la Teresi, aveva ancora gli occhi sbarrati – Voleva colpirci con una sbarra. Gliel’abbiamo levata e nella lotta…».
Un urlo femminile arrivò. Altissimo.
Si girarono tutti e videro una signora. Bionda, aveva pressappoco quarant’anni. Osservava il corpo del professore con gli occhi spalancati.
«Vada via – fece il poliziotto più grande – non c’è nulla da vedere».
«Ma cosa avete fatto?», fece lei di rimando.
Prima che qualcuno potesse fermarlo, Enrico rispose. Freddo.
«Era un pedofilo, signora, L’abbiamo fermato. Non ha visto quel video oggi?».
«Quale video?».
Un cellulare apparve nelle mani della Teresi, e lo mostrò alla donna. Era tutto così irreale. Nessun altro stava parlando.
«Lo vede? Questi poveri bambini… chissà cosa gli ha fatto. Abbiamo anche trovato la stanza dove li portava, piena di giochi. Capisce? Li attirava e poi…».
«Ma che sta dicendo?».
La donna guardò dritto negli occhi della Teresi, che li sbatté un paio di volte. Sorpresa.
«Come?».
«Ho detto: che sta dicendo? Quelli sono i miei figli. Il professore mi aiutava a volte a portarli a casa».
«Allora l’abbiamo aiutata. Lo abbiamo fermato», fece Michele. Tutto pareva ancora perfetto, giusto. E tutti avrebbero capito.
«Aiutato? Me? Il professore aveva un’associazione per le malattie rare. Quella era la stanza della figlia che è morta trent’anni fa. L’aveva lasciata così per ricordarla. E i miei figli non sono mai venuti in questa casa. Non permetteva a nessuno di giocare con quei giocattoli».
«Ma… ma il video… le accuse di quella signora…».
«È una pazza, la signora».
La voce del poliziotto giovane.
Lo guardarono. Muti.
«Solo una pazza. Lo sanno tutti al commissariato».
Poi, rivolto al suo collega, che teneva gli occhi bassi e la mano ancora a grattarsi comicamente la testa.
«Lo sapevi anche tu».
L’altro non disse più nulla.
Enrico fece cadere a terra la sbarra. Alzò gli occhi in direzione del poliziotto giovane.
«No. Era un pedofilo – fece a bassissima voce – uno schifoso pedofilo. Non ci siamo sbagliati. Non possiamo esserci sbagliati».
Tutti gli altri rimasero in silenzio.
***
Lo schermo dell’uomo che scriveva rimandò un’ora dopo una notizia.
“Morto il Professor Giorgio Lavagna. Il professore è stato colpito a morte durante uno scontro con una folla di persone che lo accusava di aver stuprato un bambino di otto anni. L’accusa era stata archiviata proprio stamattina, ma pare che in rete continuassero a girare voci sui comportamenti del professore”.
Finì di leggerla, e poi sorrise.
– Le immagini di quelle armi sono state la pennellata dell’artista. Che meravigliosa invenzione, Internet!
I suoi pensieri passarono subito ad altro, spense il PC, poi si alzò, andò verso l’uscita e si osservò compiaciuto allo specchio dell’ingresso.
Sfiorò con una mano la fronte. Qualcosa sembrò spuntare per un momento, due minime protuberanze, ma subito la superficie tornò liscia. Perfetta.
– Peccato che non vadano più di moda – pensò – ma occorre adeguarsi ai tempi.
Rise. Una risata acuta, quasi femminea.
Fece per aprire la porta, buttò un occhio fuori dalla finestra, si girò, andò all’attaccapanni e indossò una mantellina.
– Fuori è fresco, a quest’ora.
Gli occhi verdi scintillarono per un breve momento.
– Non posso permettermi un malanno. Ho tanto da fare domani.