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Le librerie riaprono, o forse no…

di Marisa Santin

Fra gli allentamenti alle misure restrittive stabilite dal Governo per l’emergenza Coronavirus, il Dpcm del 10 aprile include anche la vendita di libri. A partire da martedì 14 aprile dunque le librerie hanno facoltà di riaprire le porte al pubblico su tutto il territorio nazionale, anche se alcune Regioni hanno preferito rimandare ad altra data, come Lombardia, Piemonte, Campania, Sardegna, Trentino e Lazio.

Se da un lato la decisione del Governo è sembrata un avvicinamento ad una fase più morbida del lockdown dettato dai primi segnali di rallentamento del contagio, dall’altro ha suscitato reazioni contrastanti all’interno del comparto stesso. Gli spunti polemici riguardano soprattutto la sicurezza, ma non mancano preoccupazioni di carattere economico, come la prospettiva di perdere il cuscinetto degli ammortizzatori sociali in uno scenario di ridotta affluenza e potenzialità di vendita.

Un deciso fronte contrario si è alzato dal gruppo facebook LED – Librai Editori Distribuzione tramite una lettera aperta pubblicata sul portale culturale minima&moralia. Le oltre 150 librerie firmatarie, perlopiù piccole realtà indipendenti, lamentano la mancanza di indicazioni precise sulla gestione dei rischi all’interno di spazi in cui solitamente le persone “passano del tempo tra gli scaffali a maneggiare libri e a cercare dialogo e confronto con noi librai”.

La riflessione si sposta sulla specificità della libreria, che non può essere risolta in un mero luogo di rivendita merci. Anche lasciando da parte i grandi della vendita online (Amazon su tutti), durante questo mese di quarantena chi voleva procurarsi un libro ha avuto a disposizione una miriade di canali digitali e di iniziative di “consegna a domicilio” attivate sul territorio da realtà anche le più piccole. Come sottolinea LED, le librerie sono invece dei “presìdi culturali che vivono costruendo relazioni, dei luoghi che hanno un peso nella creazione di comunità culturali e sociali, spazi che creano dibattiti, lavorano alla promozione e alla diffusione della lettura e della cultura in senso ampio, organizzano eventi e occasioni di confronto”, come ci avevano ben raccontato due librerie indipendenti prima dell’emergenza, La Forma del Libro di Padova e la storica Centofiori di Milano. Ha senso dunque allentare le maglie delle restrizioni – e aumentare di conseguenza i rischi di contagio – per consentire un accesso parziale e “mordi e fuggi” fra gli scaffali?

Più conciliante la posizione del presidente Paolo Ambrosini dell’Associazione Librai Italiani, che intravede nella decisione del Governo un riconoscimento del libro quale bene necessario ed essenziale. Rivolgendosi ai colleghi, Ambrosini ha ricordato che aprire non significa rinunciare agli strumenti emergenziali stabiliti dal Governo e invita dunque a non rinunciare ad uno spirito imprenditoriale che anzi deve emergere con forza soprattutto nei momenti di difficoltà. Oltre a ristabilire con fermezza il ruolo culturale e sociale delle librerie, rialzare le serrande in questo momento significa, per Ambrosini, anche un passo avanti verso la definizione di “una grammatica comune di convivenza con il virus”, una convivenza che a quanto pare durerà a lungo e di cui dobbiamo cominciare ad imparare le regole.

In questo momento vogliamo credere che il decreto del Governo che ricolloca i libri fra i beni essenziali non sia un atto puramente simbolico. Le librerie faticano a stare a galla da molto prima del Coronavirus e la crisi che le ha interessate è evidentemente di carattere strutturale più che emergenziale. Ci auguriamo che questo riconoscimento di “essenzialità”, di cui ha parlato anche il Ministro Franceschini in un recente tweet, non evapori ai primi raggi di “ritorno alla normalità” e che possa in futuro trasformarsi in azioni concrete di sostegno al settore.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay
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