
«Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice. In realtà la famiglia se la caverà alla grande, come è sempre stato dall’alba dei tempi, mentre sarà lo scrittore a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi».
Scrive così Veronica Raimo in esergo al suo ultimo romanzo, Niente di vero (Einaudi, 2022), candidato al Premio Strega 2022. Nella sua famiglia, poi, gli scrittori sono due, lei e il fratello genio: Christian Raimo.
di Chiara Levorato
Questo è il punto di partenza della finta autobiografia in cui i comportamenti della famiglia, compresi parenti non prossimi, vengono descritti con comicità, ironia e un senso del grottesco che non ha pari in altre scrittrici italiane, né scrittori. La sottolineatura sulla italianità ci sta: il quadro che emerge è una tipica ambientazione italiana, con le classiche credenze, i tic, gli atteggiamenti. E quale sia, invece, l’atteggiamento di Veronica Raimo lo rappresenta bene la foto di copertina – mai ne vidi una più azzeccata – in cui una ragazzina chiude gli occhi e arriccia il naso e la bocca come a non voler vedere, a voler esprimere raccapriccio. È così che sembra porsi Veronica Raimo nei confronti della realtà. Della realtà?
Il titolo Niente di vero fa pensare che il gioco della finta autobiografia sia più complesso. Il romanzo è molto molto godibile, autentico e ispirato dall’inizio alla fine, nonostante sia molto difficile tenere sempre un registro che sia al contempo ironico e affettuoso, dissacrante e partecipato. Eppure, proprio questa è la forza di questo romanzo: l’autrice sembra prendere poco sul serio le vicende della sua infanzia e le motivazioni dei suoi personaggi, eppure chi legge ne costruisce una immagine forte, coerente. Sono personaggi esagerati, eppure non sono mai delle caricature.
C’è inoltre un parallelismo – dichiarato sulla bandella del libro – tra Niente di vero e Lamento di Portnoy, fermo restando che è molto più facile per noi che leggiamo in italiano Philip Roth identificarci con una ragazza di Roma che con un ebreo di New York.

È stato difficile ottenere questo risultato? Non fare dei suoi personaggi delle macchiette ma persone vere?
Quello che ho cercato di fare è estremizzare alcuni caratteri dei personaggi e lavorare sulle loro ossessioni e nevrosi nel tentativo di ottenere un effetto comico. In alcuni casi ho anche creato situazioni volutamente al limite del grottesco, ma sempre tenendo un principio di verosimiglianza.
«Un romanzo di formazione dove non si arriva da nessuna parte». Questa la definizione che lei dà del suo ultimo romanzo, scritto in prima persona da una donna di nome Veronica, che ha un fratello che fa lo scrittore (e che ci fa pensare a Cristian Raimo). Abbiamo l’impressione di leggere un libro sull’infanzia e sull’adolescenza dell’autrice. Il titolo però ci mette in guardia: Niente di vero. Proprio niente? Non le appartiene intimamente nemmeno il tono ironico, sarcastico, sferzante con cui è scritto?
Il titolo voleva dare un distanziamento rispetto all’idea di memoir, ma anche suggerire che ogni autobiografia è di per sé una messa in scena, un allestimento di se stessi in cui è difficile stabilire il grado di verità. Di sicuro il tono del libro e lo sguardo della protagonista sono qualcosa che sento molto vicino a me.
In quale genere includerebbe il suo romanzo, se non in quello dell’autobiografia? O rifiuta a priori di incasellare il suo romanzo in un genere?
È già incasellato in un genere: il romanzo!
Lei è anche traduttrice: in quale modo son differenti le sfaccettature di Veronica Raimo scrittrice vs traduttrice?
In realtà sono molto simili. Sia quando scrivo che quando traduco mi interessa che la frase a cui sto lavorando mi soddisfi e non riesco a staccarmi dal testo finché non sono soddisfatta. Non riesco a lasciare sulla pagina qualcosa che non mi convince e tornarci in secondo momento – in fase di riscrittura o di revisione – quindi ho lo stesso tipo di nevrosi in entrambe le attività.
Mi pare che la sua Veronica sia una antieroina, per la futilità delle situazioni con cui si confronta (il «bidello coglione») o per il modo sommesso in cui affronta il dolore (la perdita del padre, la scomparsa dell’amica). Però è un’antieroina femminista per la determinazione con cui compie scelte di libertà (l’aborto). Nella letteratura italiana recente, piuttosto provinciale, i personaggi femminili devono essere delle eroine. Il suo è un personaggio controcorrente. Concorda?
In realtà anche le antieroine rischiano di diventare stereotipiche, così come lo è diventata la figura dell’antieroe. Cambia quello che c’è alla fine: da una parte il successo e dall’altra il fallimento, ma è sempre una narrazione piuttosto lineare e binaria. Volevo provare a sovvertire questa linearità e l’idea stessa che un personaggio debba per forza compiere un percorso. Per me il femminismo corrisponde alla capacità di mettere in crisi se stesse e lo status quo, di imparare a convivere con una condizione esistenziale di dubbio.sta.
Qual è il suo lettore o lettrice ideale?
Lettori e lettrici che non si aspettano un messaggio.
Come chi vorrebbe scrivere? Ossia ha uno scrittore o scrittrice mito?
Ho avuto molti amori letterari, in generale amo scrittori e scrittrici che si mettono nella condizione di rischiare, di perdersi e di non mostrarsi rassicuranti.