Ci sono libri sul cui giudizio non riusciamo proprio a decidere. Per questo non ci resta che proporvi sia la recensione positiva che quella negativa. Lasciamo il verdetto finale a chi il libro lo ha letto e a chi lo leggerà.
PERCHÉNO / SÍPERCHÉ
Criticare un monumento della letteratura italiana è una impresa suicida. Si pensi che nella edizione celebrativa del cinquantenario il romanzo ha un’aggiunta di contributi critici di Geno Pampaloni, Mario Pomilio, Silvio Perrella, Domenico Starnone, Claudio Magris, Leonardo Colombati. Per nessuno di loro Ferito a morte pesa un grammo di meno di un capolavoro; e per tutti la prima pagina pesa un grammo di più di un capolavoro, è un assoluto miracolo. Finito il romanzo, Sandro Veronesi, in un suo recentissimo contributo sul «Corriere della Sera», consiglia il lettore di ricominciarlo subito, non si può non avere voglia di farlo, e di rileggersi almeno il primo capitolo.
Subito all’inizio però ci si confonde un poco le idee. Pare di stare a Dublino, e non a Napoli, che è la costante scena luminosa di Ferito a morte. L’imitazione di Joyce è quasi letterale. Nello stile, nel tono, nelle tecniche letterarie – c’è persino il gatto: «“Oh sei qui,” disse Mr. Bloom, distogliendosi dal fuoco… “Latte per la miciolina”… il latte che cola nel piattino, ora colmo posato a terra. “Ti metti paura che te lo levo? Calma, calma”».
La differenza: nell’Ulisse la bestiola è una gatta, in Ferito a morte un gatto. Una citazione? Va bene. Ma tutto il romanzo cita l’Ulisse, soprattutto nella difficoltà che si incontra a leggerlo. Un capolavoro deve essere oscuro e confuso? Una lingua distesa non viene premiata? I piani temporali devono essere sfalsati, i punti di vista mischiati? Deve essere un’impresa capire chi sta parlando, di cosa e a chi? Poi, lentamente, qualcosa anche fila, per carità. Gli ultimi tre capitoli sono i migliori e possono essere goduti anche da chi ama una scrittura meno artificiale e letteraria.
C’è però, anche nella parte finale, una sorta di autocompiacimento nel racconto delle modeste imprese di questi ricchi, annoiati e vuoti giovani napoletani: è il compiacersi dell’autobiografismo.
Scrivere di Ferito a morte, uno dei maggiori capolavori della letteratura italiana del Novecento, è temerario e probabilmente inutile. Impossibile aggiungere alle analisi critiche di ormai sessant’anni qualcosa di sensato, di nuovo, di originale. Ma parlare invece delle proprie sensazioni di lettore può forse aiutare altri lettori a non fermarsi davanti alla sua fama di romanzo ostico, non facile, e a intraprendere una lettura che, per chi ama la prosa letteraria, non può che essere un piacere da rinnovare spesso, rileggendo questa opera in parte autobiografica di Raffaele La Capria più volte. Consiglio di lasciarla a lungo sul comodino per poterla riprendere in mano più facilmente, magari richiudendo prima di averlo finito l’ultimo gialletto, il penultimo noir o spegnendo la più bella serie televisiva dell’anno.
C’è un mistero. Ferito a morte ti abbraccia. Non vorresti più perdere quel contatto, quel calore. Non sai bene perché ti piaccia così tanto quell’abbraccio, le braccia che ti accolgono sembrano gracili, il petto che si stringe al tuo modesto, il volto sfugge dietro di te, non lo vedi se non confuso. Ma provi un vortice di sensualità e di piacere della mente, non ti stacchi da Ferito a morte, lo leggi d’un fiato, se non capisci qualcosa torni indietro sempre d’un fiato, non puoi farne a meno, non puoi chiuderlo. Altro che gialli e noir!
Credo sia la tessitura narrativa complessa ma attraente a produrre questo risultato. Monologhi, flusso di coscienza, dialoghi serrati, simboli che emergono dalla profondità del mare, la bellezza di Napoli. Il restituirti con poche parole, con una grande capacità di sintesi, ambienti e situazioni. La noia di un gruppo di giovani ricchi. L’amore illuso. La speculazione. La frase di La Capria ti trae al di qua della normale esperienza del tempo: leggendo Ferito a morte ti senti salvo. È spietato nel mostrare che il tempo passa inesorabile e distrugge, ma ti permette una sospensione là dove il passare degli anni non fa più male. Basta vivere una bella giornata.
Ferito a morte di Raffaele La Capria
Bompiani 1961 – 150 pagine € 8,50 (Mondadori 2011)