Dopo cinque anni da Dove la storia finisce, Alessandro Piperno torna in libreria con Di chi è la colpa, che egli stesso definisce «un romanzo vittoriano del XXI secolo».
Siamo di fronte ad un romanzo di formazione che richiama Charles Dickens: il protagonista vive un’infanzia difficile, con un padre e una madre segnati dalle difficoltà economiche. Scopre alle soglie dell’adolescenza che la madre proviene da una ricca famiglia ebrea della quale entrerà a far parte, e la sua vita cambierà in modo radicale.
È un protagonista senza nome perché – come afferma non senza ironia Piperno in questa intervista – «un eroe come il mio non merita un nome e un cognome più di quanto lo meriti io. È un vile, un manipolatore, un uomo per tutte le stagioni. Non è un caso che faccia lo scrittore».
di Chiara Levorato
Dopo aver chiuso il suo libro ho iniziato a leggere un romanzo di un altro autore italiano e, lo dico senza piaggeria, è stato come passare dal paradiso all’inferno (veniamo dal cattolicesimo). Non sono riuscita ad andare oltre la metà perché la lingua era piatta, senza alcuno spessore stilistico. Mi ero abituata bene con Di chi è la colpa. Come riesce a raggiungere un risultato così prezioso, raro nel panorama letterario italiano? Sono curiosa: quante volte riscrive una pagina?
Se permette, non la metterei così. Lavoro adagio, questo è vero, ma il labor limae, se lo si può chiamare così, non riguarda mai la scelta della singola parola. Se posso, evito il vocabolario dei sinonimi e dei contrari. Quando lavoro a un romanzo, il preziosismo formale non è il mio orizzonte. Anzi, pur di dargli un po’ di vita, sporco volentieri il lessico adeguandolo a un registro colloquiale. Il vero mazzo consiste nel conferire alla prosa un ritmo suadente e un tono caustico, due istanze difficili da tenere insieme. Dal cinema e dai romanzi ottocenteschi ho imparato che un’opera narrativa va lavorata per scene. Se ci pensa, Di chi è la colpa non è altro che un collage di scene divise da vertiginose ellissi temporali. Il seder in casa Sacerdoti e la vacanza americana – che nei miei propositi avrebbero dovuto essere interludi gioiosi – occupano un terzo del romanzo. Comunque, se fossi in lei, darei un’altra chance al mio collega.

Quando lavoro a un romanzo, il preziosismo formale non è il mio orizzonte. Anzi, pur di dargli un po’ di vita, sporco volentieri il lessico adeguandolo a un registro colloquiale.
Il tema della colpa è molto presente nella vita di tutti noi. Quando qualcosa non va, qualsiasi cosa, tendiamo a dare la colpa a qualcuno. E poi, se abbiamo spirito critico, attribuiamo questa tendenza colpevolizzante all’educazione cattolica. Lei smentisce questa attribuzione e la rappresenta come un dato umano essenziale, antropologico. È così? In genere la colpa si caratterizza per il desiderio di riparare (in questo si differenza dalla vergogna). Ma c’è qualcuno nel suo romanzo che voglia riparare il dolore che ha inflitto?
Immagino che il cattolicesimo c’entri, e anche il suo fratello maggiore: l’ebraismo. Ma non finisce lì. Basta dare una scorsa ai libri di René Girard (antropologo di ispirazione cattolica) per capire che l’identificazione del capro espiatorio è un’esigenza vecchia come Adamo. Nelle società primitive, tanto per dire, venivano sacrificati animali, prigionieri di guerra e fanciulle vergini allo scopo di placare la furia di qualche dio capriccioso e iracondo. Almeno da questo punto di vista da allora non c’è stata alcun progresso antropologico. Oggi non serve uccidere il mostro, basta sbatterlo in prima pagina. Ogni riferimento ai no vax è voluto.
Il protagonista non ha un nome. Altri esempi in tal senso mi vengono in mente: romanzi in prima persona (tra i miei preferiti Il giardino dei Finzi-Contini, Everyman di Roth, Cecità di Saramago). Ma nel caso del suo personaggio ho attribuito questa scelta al fatto che egli attraversa diverse identità, non per un processo di crescita come succede a tutti noi, ma come un individuo che passa da un ambiente all’altro senza averlo scelto. La sua vita assomiglia un po’ a quella dei bambini e delle bambine adottate che passano dagli slum di Mumbay alle famiglie agiate del centro di Roma, felici per i vantaggi acquisiti, ma con un mondo di affetti irrisolto. Questo per dire che il tema dell’identità mi sembra centrale nel suo romanzo: il protagonista è un impostore perché inganna su chi è e sulla sua passata famiglia. Cosa ne pensa?
Penso che lei abbia ragione. Non battezzare il mio narratore è stato l’escamotage più semplice e naturale – non così originale, a pensarci bene – che ho saputo inventare per dare corpo alla sua impostura. Un eroe come il mio non merita un nome e un cognome più di quanto lo meriti io. È un vile, un manipolatore, un uomo per tutte le stagioni. Non è un caso che faccia lo scrittore.
Mettere in commercio libri che la gente acquista volentieri fa parte del gioco. E quindi viva i ricettari e le biografie di sportivi. Era così nell’‘800 ed è così nel ventunesimo secolo. Per quanto riguarda i lettori disposti a spendere venti euro per acquistare un romanzo, come non rispettarli? Come non ringraziarli? No, non meritano il nostro biasimo.
Oggi il mercato editoriale sembra premiare, in termini di vendite, romanzi semplici e di programmatica povertà stilistica (questo mi sembra sia un suo giudizio). Tutti molto simili uno all’altro, sembrano scritti dallo stesso autore o corretti dallo stesso editor. La nostra rivista l’ha definita “scrittura industriale”. Qual è la sua opinione?
La mia opinione è che non ha senso stracciarsi le vesti. Gli editori sono imprenditori, rischiano in proprio, distribuiscono anticipi più o meno generosi, hanno il diritto di guadagnare quel tanto che consenta loro di continuare a vivere e pagare le bollette e gli stipendi. Non sono educatori del gusto pubblico. Mettere in commercio libri che la gente acquista volentieri fa parte del gioco. E quindi viva i ricettari e le biografie di sportivi. Era così nell’‘800 ed è così nel ventunesimo secolo. Per quanto riguarda i lettori disposti a spendere venti euro per acquistare un romanzo, come non rispettarli? Come non ringraziarli? No, non meritano il nostro biasimo. Ciò detto, trovo esecrabili gli scrittori che Walter Siti ha recentemente definito neo-impegnati: l’idea che li anima è francamente disonesta. Da un lato scrivono libri con intenti didascalici e consolatori, dall’altro ritengono che il miglior modo per farlo sia svilire la lingua riducendola a un birignao corrivo e petulante.
Lei ha dichiarato di aver scritto un romanzo vittoriano del XXI secolo. Pensa che la nostra epoca abbia qualcosa in comune con quella vittoriana, o voleva rendere omaggio a Charles Dickens e a George Eliot? O qualcos’altro?
A esser sincero, non sono molto interessato alla società messa in scena da Dickens e Eliot più di quanto lo sia all’Atene di Pericle o alla Roma di Giulio II, e del resto non saprei dirle se essa somigli a quella odierna. Immagino di no ma davvero, non ho le competenze necessarie per stabilirlo. Né intendevo tributare un omaggio a due scrittori sommi su cui mi sono formato. Provare a scrivere un romanzo vittoriano ha significato per me attenermi a una forma abbastanza flessibile da consentirmi di tenere insieme ispirazione realistica, peripezia e gusto della digressione.

Qual è il suo lettore o lettrice ideale?
Non è una domanda che mi pongo mentre scrivo. Diciamo che un buon lettore è un tipo solitario, paziente e spiritoso.
Cosa cerca un lettore o lettrice nei suoi romanzi in generale, e in Di chi è la colpa in particolare?
Credo che qualsiasi lettore consapevole cerchi i piatti della casa: un certo clima, un mondo, il modo tutto mio di assemblare le frasi e di tratteggiare i personaggi.