di Giuliano Gallini
Contro. Mi approprio dell’esortazione di Walter Siti riferendomi al suo saggio su cosa sia il Bene in letteratura: Contro. Non per contestare: all’opposto per aggiungere. Contro l’impegno, per Walter Siti: Contro la scrittura industriale, aumento io. I miei mezzi sono molto più modesti, ma ci provo.

1. La narrativa mainstream
C’è molta insofferenza, nel ‘giro letterario’, per la narrativa mainstream. Finalmente. Ma quali sono gli elementi – di stile e di contenuto – che caratterizzano la letteratura contemporanea, come e di cosa scrivono i romanzieri? Ne fornisce un ‘succinto repertorio’ Gianluigi Simonetti («La Stampa», 22 Maggio 2021): «La lingua è di solito un italiano scritto ma non letterario, senza peso perché privo di rinvii alla tradizione e eccessive sottigliezze (benvenuta al limite qualche macchia di colore, italiano regionale o gergo espressionistico)». Scorrevole(!), insomma. La trama deve essere facilmente padroneggiabile da parte del lettore e ricca di «melodramma e di sorprese», i contenuti e i temi siano alla moda: «suggestioni esotiche o turistiche (diversi tipi di altrove, meridioni di Italia e del mondo, periferie malfamate o paradisi naturali), spunti di denuncia (romanzi criminali, discriminazioni, orgogli reattivi)… racconti di fascismi, nazismi, terrorismi vari… personaggi vittimari… patografie specializzate nel racconto di malattie, dolori, sfighe o traumi…».
Si è creata, secondo Simonetti, «una strana saldatura tra romanzo civile e narrativa di genere (soprattutto noir e giallo)». E continua: «Più nel mondo le cose vanno male, più questa letteratura cerca di volgerlo al bene: al netto di qualche contrasto funzionale al dipanarsi dell’intreccio, i libri di successo tendono a concludersi con un pensiero positivo, o un richiamo a valori condivisi, o a qualche tipo di risarcimento: non di rado nei titoli stessi – perché il concetto sia immediatamente chiaro – fioccano rimandi all’amore, alla vita, alla luce e alla bellezza».
2. L’impegno

Nel suo pamphlet Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli, 2021), Walter Siti scrive pagine di grande, divertita, a tratti spietata (ma più spesso affettuosamente rassegnata) critica letteraria, partendo dall’analisi delle opere di alcuni degli scrittori italiani contemporanei di maggiore successo, da Saviano a Carofiglio, da Murgia a D’Avenia a Catozzella.
Vede nel loro lavoro una sorta di megafono dei temi di più sicura presa: «La versione oggi prevalente dell’engagement punta su un contenutismo tanto orientato sulla cronaca quanto angusto, con temi che non è difficile elencare: migranti, vari tipi di diversità, malattie rare, orgoglio femminile, olocausto, bambini in guerra, insegnanti eroici, giornalisti o avvocati in lotta col Potere, criminalità organizzata, minoranze etniche… amore e brutalità si escludono, la lotta basta a se stessa, ciò che puoi sognare puoi farlo, non mollare mai, l’odio nasce dall’ignoranza, la violenza è sempre da condannare, la bellezza è verità, i bambini sono innocenti».
Questi scrittori neo-impegnati si trincerano «dietro una fitta coltre di perbenismo e puritanesimo gauchiste» (Piperno su Siti, «Corriere della Sera», 25 aprile 2021). Di Gianrico Carofiglio, Siti osserva che «assegna alla letteratura il compito di dire la verità, e genericamente alle storie quello di coltivare empatia». Siti invece crede che «la letteratura possa spingerci all’odio, degli altri e di noi stessi, e possa arrivare a farci dubitare di qualunque verità; che serva a mettere ordine nel caos, ma anche caos nell’ordine».
3. Perché fanno male
Ma che cosa c’è di male, si chiede Siti, a promuovere il bene? Sono almeno due le conseguenze nefaste della narrativa di moda oggi: la prima è che «il rigore morale dell’impegno insidia il nucleo più profondo dell’arte, il suo tesoro segreto: il dubbio, l’ambiguità, la controversia» (Piperno). La seconda, scrive ancora Piperno leggendo Siti, «è la relazione tra gli afflati umanitari, non privi di intenti proseliti, degli scrittori neo-impegnati e la programmatica povertà stilistica che li contraddistingue. È come se il neo-impegno si compiacesse di questa sorta di suicidio formale al punto tale che sempre più spesso le intenzioni virtuose hanno la meglio sull’impeccabilità prosodica».
4. Gli scorrevoli
Un romanzo deve essere, prima di tutto, “scorrevole”. La scorrevolezza è una delle proprietà fondamentali del romanzo neo-impegnato. La critica, o un qualsiasi recensore-social, quando vuole dare un giudizio positivo di un testo ricorre alla sua scorrevolezza. Lo “scorrevole” ha naturalmente molte e note terminazioni, tra le quali: ti prende subito fin dall’inizio, non lo lasci più. Ma anche qui: c’è qualcosa di male a essere scorrevoli? Sì. Perché? Che cosa non fa un testo scorrevole? Il suo peccato è non fare proprio ciò per cui è celebrato: non ti fa tornare indietro, non ti pone dei dubbi, non ti fa rallentare. Il testo scorrevole ti fa capire tutto subito. Ci sono libri di seicento pagine che leggi in fretta; tra lettori si dice che sì, è un librone, ma si legge in un soffio, perché è “scorrevole” – perché non c’è niente dentro, non c’è niente tra le righe! Sono «libri di puro intrattenimento che si leggono d’un fiato… niente sperimentalismo, niente avanguardia, niente estetismo; solo figure semplici e dirette, a pronta beva, come l’anafora, l’interiezione, l’invettiva, l’ironia» (Siti).
5. Scorrevoli e pianeggianti
«Ogni volta che la scrittura acquista spessore, il testo si sposta dall’intento primario e suggerisce orizzonti più ampi, se non contradditori» (Siti). La maggior parte dei romanzi che si pubblicano sono però a una dimensione. Una storiella, e vai. Per nobilitarla: l’impegno. Il piano della narrazione più o meno cronachistica non mostra mai il piano della storia e men che mai quello del simbolo. Sennò: addio scorrevolezza. Siti ci offre alcuni esempi di come un testo possa sostenere «cause etiche e/o politiche senza avvilire le potenzialità conoscitive della letteratura». Il Carrère di Vite che non sono la mia, per esempio; Santa Giovanni dei Macelli di Brecht. L’incontro di Dante con il trisavolo Cacciaguida nel Paradiso. Aggiungo io: Aramburu di Patria. Imparare da loro.
6. Ma chi insegna tutto ciò?
Editor e scuole di scrittura. Che hanno schemi (sì, schemi) e si innervosiscono ogni volta che un romanzo non applica i loro schemi. Un certo incipit, un inizio travolgente, personaggi caldi. Niente contro editor e scuole di scrittura, sono preziosi. Ci vogliono sempre più lettori competenti visto il grande numero di aspiranti scrittori, e loro possono esserlo: ma che non rendano piatta ogni pagina applicando schematicamente vecchie regolette. Se c’è un coltello nella prima pagina… Ah! Scrive Siti: «il vero bene che la letteratura può fare agli uomini è inseminare la testa degli scrittori con ciò che essi non sapevano di sapere, e permettere che i fantasmi così creati fecondino la società a sua insaputa… ricreare il silenzio necessario per essere parlati (nell’antica letteratura orale si invocava la Musa)».
Invece di insegnare schemi, editor e scuole di scrittura dovrebbero tentare di aprire la testa degli scrittori affinché vi entri dentro l’ispirazione. Avremo molti meno romanzi e romanzieri scorrevoli ma parole migliori. Siti osserva che «quei luoghi in cui si cucinano i romanzi somigliano… a certe redazioni giornalistiche: stessa attenzione ai trend topics e all’esito commerciale, stessa indifferenza all’unità indivisibile dello stile, stessi affanno e confusione nei rapporti tra vero e verosimile».
7. Chi critica?
Dove tutti sono meravigliosi, straordinari: o bestie fetenti. È nei social, nell’online che la critica-critica è scomparsa, sommersa e affondata da analisi che «hanno sempre meno voglia di fare del male, di entrare in conflitto con i testi di cui dovrebbe occuparsi. Magari si concede qualche rara, goliardica stroncatura, ma di norma indulge a festose celebrazioni, tanto inutili quanto stucchevoli. Appaltata in gran parte a vip orgogliosamente incompetenti, o a scrittori in proprio (troppo bisognosi di approvazioni altrui per potersi permettere di disapprovare il prossimo) la nuova critica ha imparato dai social – e dalla politica – a non dispiacere a nessuno: a elargire big like o a sparare sulla croce rossa» (Simonetti su Siti, «La Stampa», 1 maggio 2021).
8. Qualcuno legge Proust
Anni fa, Andrea Caterini, nel suo Ritratti e Paesaggi (Castelvecchi, 2019) ha scritto capitoli memorabili sul melenso, banale mainstream letterario contemporaneo. Mi è tornato in mente quando ho letto la lamentela di Siti per la povertà stilistica di molti scrittori contemporanei. Non è chiaro in loro che la qualità della scrittura aiuta la profondità del testo: e i loro testi rimangono perciò grottescamente in superficie. Scrive Caterini: «La realtà è una stratificazione ed è attraverso lo stile che possiamo mano a mano raggiungere quei diversi piani… la sintassi di Proust cerca di occuparli tutti, quei piani… una proposizione vale un mondo». Il contrario dello scorrevole contemporaneo.
9. Altri leggono i romanzi socialmente utili
Andrea Caterini chiama romanzo socialmente utile il «filone pieno di buoni sentimenti, il più conformista» e cita, come Siti, Giuseppe Catozzella quale campione del genere. Catozzella con Non dirmi che hai paura, ha scritto «quello che ognuno voleva sentirsi dire, ha soddisfatto la bontà d’animo di ogni lettore… un pietismo da scrivania… finito il libro ci sentiamo migliori e tanto basta a darci l’illusione di essere già dei missionari – pur non mettendo mai il piede fuori da casa nostra». Continua Caterini passando dal romanzo socialmente utile al romanzo tradizionale: «leggo sempre con scetticismo tutti quei libri, e sono molti, che non hanno nulla da dire ma tanto da raccontare… è il modello di derivazione statunitense che si è capillarizzato attraverso la Scuola Holden. Romanzi identici uno all’altro. Ne hai letto uno e li hai letti tutti. Potete attraversare una storia di Paolo Giordano e una di Marco Missiroli e non ne capirete la differenza».
10. E storie. Storie…
«È vero, le storie mi hanno stancato», grida Andrea Caterini. «Ne capisco subito l’intenzione, la costruzione artificiosa. Mi annoiano le storie che non hanno più nulla da esprimere, che non veicolano più un pensiero sul mondo. Ce ne sono a centinaia e sono tutte uguali con la stessa lingua finta che quasi sempre è di derivazione americana».
11. I viscosi
Ma ci sono autori che si oppongono al mainstream, dice Simonetti. E scrivono libri «che più o meno inconsciamente reagiscono alle tendenze… fino a creare un vero e proprio antimodello… se il mainstream cerca la leggibilità e la scorrevolezza, nel suo rovescio si invita alla rilettura, e a destreggiarsi tra gli spigoli; se il mainstream punta alla rassicurazione enfatica, allo storytelling e alla vita, nel suo rovescio si scommette sulla provocazione antisentimentale, la deriva narrativa, la morte». Ho letto alcuni dei libri che Simonetti porta ad esempio di anti-modello ma non ne ho ricavato una impressione positiva. Lo stile è affaticato, manierato – certo non scorrevole: ma quasi lo fa rimpiangere. E si racconta di erotismi violenti, sadismi, sofferenze, crimini così smodati da non farne altro che l’involontaria caricatura o parodia.
Anni fa, dopo una lunga serie di invasive analisi mediche alla ricerca di un tumore, alla vigilia dell’ennesimo controllo un nuovo medico mi disse di lasciar perdere, che era inutile cercare un tumore dove non c’era. In alcuni di questi libri dell’anti-impegno si cerca il male anche dove non c’è: e diventano dannatamente simili a certi noir mainstream. I “viscosi“, li chiamo. Usano proposizioni oscure, inseguono sperimentalismi novecenteschi. Anche qui: niente di male a tentare una scrittura letteraria: ma che non sia solo un esercizio di stile senza ispirazione. Nelle loro pagine ci si impantana e la loro scrittura, al pari di quelle scorrevoli, sembra industriale.
12. La scrittura industriale
E sono arrivato al titolo di questo articolo. La narrativa mainstream – e molta anti mainstream – si caratterizza soprattutto per la sua industriale artificialità. Appena si inizia a leggere la si riconosce, il formaggio della sua trappola è la banalità, i temi oggi di moda scattano come una molla a tagliare le gambe della nostra immaginazione, le sbarre della gabbia si ricoprono di buoni sentimenti. Sono prodotti di serie, non artigianali. Non fatti a mano. Non unici. Sono manufatti ispirati unicamente dal mercato. Devono vendere e vanno in vetrina come le imitazioni cinesi di Venini o Seguso o Moretti: ottime, ma prive delle prodigiose rifrazioni di fantasia degli originali. Soprattutto sono libri debitori dei linguaggi televisivi: «L’orizzonte letterario italiano avverte un complesso di inferiorità nei confronti dei linguaggi audiovisivi e che l’industria editoriale investa soprattutto su scritture stilisticamente facili e dai contenuti di tendenza è ormai un dato di fatto. Ed è altrettanto innegabile che oggi chi ha scritto un libro conta quasi più del libro stesso e che il successo di un’opera non dipende dal giudizio della comunità critico-letteraria ma da quante copie se ne vendono e da quanto se ne parla su altri canali» (Federica Jacobsen, 15 maggio 2018 su La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti).
I romanzi creati nelle officine industriali, appiattiti e banalizzati da costosi editing, potrebbero in effetti essere prodotti robotici, e in parte lo sono: i programmi di scrittura già oggi aiutano autori e revisori, e presto un robot potrà scrivere il romanzo che conquisterà la vetta delle vendite. Come a molta odierna narrativa mainstream però mancherà l’ispirazione: ai robot, agli scrittori, ai revisori non parla nessuna Musa e così robot, scrittori e revisori finiscono per produrre libri senza spessore, piatti. Letto uno, letti tutti. Si dirà: ma questo chiede il mercato, questo vogliono i lettori. Ma i lettori sono educati unicamente dal mainstream alla ‘poetica unica del mainstream’: come potrebbero desiderare e apprezzare altro?
13. Una volta
Anch’io, naturalmente, leggo la narrativa di evasione e di facile consumo, e a volte con piacere. È bello evadere. È vero che oggi non mancano le occasioni: lo shopping, le serie televisive, i talk show, i reality, prendere il sole in spiaggia, l’aperitivo al bar… e un ‘buon libro’ giallo, o noir, o d’amore, o di storie famigliari si affianca alle altre opportunità offerte dalla nostra cordiale ‘società dello svago’ con legittime pretese. Ogni tanto, però, invece di evadere è bello anche rimanere dentro se stessi: per smarrirsi e ritrovarsi. A questo serve la letteratura.
La narrativa d’evasione è sempre esistita: ma non era invasiva come oggi, e non era così timida la letteratura. Ricordo bene i tempi andati, e non per rimpiangerli. Anch’io, come Piperno, «confesso una mia difficoltà a seguire chiunque si abbandoni a scorati accessi di pessimismo storico», ma non è pessimismo storico scoprire quanto oggi il mercato, in pieno spolvero del neo liberismo, sia più forte che mai e che quindi possa condizionare i cittadini-consumatori molto più di un tempo. È questo che sta accadendo. Elementare, Watson.
14. La resistenza
La resistenza allora si fa, come si sta facendo, nelle librerie indipendenti, con editori che amano la letteratura, con autori coraggiosi, né scorrevoli né viscosi. E capita che…
15. …il diavolo ci metta Emanuele Trevi
Così il Premio Strega quest’anno lo ha vinto un libro e un autore lontano dalla narrativa mainstream, che meritava tale riconoscimento già con Sogni e favole del 2018. Emanuele Trevi ci era già andato vicino, allo Strega, con Qualcosa di scritto nel 2012, arrivato secondo, ma la sorpresa è stata, quest’anno, il primo posto nelle classifiche di vendita di Due vite.
Certo trainato dal Premio: ma lasciare indietro l’ultima settimana di luglio Stefania Auci, Antonio Manzini, Maurizio de Giovanni, Donatella Di Pietrantonio… e insidiare Valérie Perrin! Chi ci avrebbe scommesso?
