Antonia Arslan nasce a Padova in una famiglia di origini armene. Nel 2004 pubblica il suo primo romanzo, La masseria delle allodole, che porta all’attenzione dei lettori italiani il dramma del genocidio del popolo armeno avvenuto nel 1915 ad opera dell'Impero Ottomano. Il romanzo diventerà un film per la regia dei fratelli Taviani. Da allora ha pubblicato molti romanzi che, nell’insieme, ricostruiscono parti importanti della storia armena.
Una conversazione ai tempi del COVID-19 con Antonia Arslan, scrittrice simbolo della diaspora armena. Si parla di letteratura italiana, di poesia in lingua armena, di isolamento da virus e molto altro: confidenze in toni affettuosi con una collega dell’Università di Padova. Un riferimento per le coscienze di coloro che mettono sopra tutto libertà e democrazia.
di Chiara Levorato
Come stai Antonia?
Ho fatto tardi ieri notte perché mi sono messa a riordinare le carte… Quante memorie sono riemerse. E ho ritrovato di tutto, indirizzi, appunti, e anche una strofa di una poesia stupenda sulla pestilenza di Thomas Nashe, un poeta elisabettiano.
È così forte la tua identificazione con la storia del popolo armeno che non appena si dice Antonia Arslan il pensiero va subito al tuo primo romanzo La masseria delle allodole e al racconto del genocidio. Vorrei fare una riflessione sulla responsabilità di far conoscere a tutti una memoria che era sepolta, di cui non si doveva parlare per la censura turca: la memoria della storia del popolo armeno.
Brightness falls from the air;
Queens have died young and fair;
Dust hath closed Helen’s eye.
I am sick, I must die.
Lord, have mercy on us!
 La luce scende dall’aria,
Regine sono morte giovani e belle;
La polvere ha chiuso gli occhi di Helen.
Io sono malato e devo morire.
Che Dio abbia pietà di noi.
da A Litany in Time of Plague/ Una litania in tempi di pestilenza di Thomas Nashe
Come sei riuscita a intrecciare la storia della tua famiglia e la storia del popolo armeno?
Ho sempre conservato in me i racconti di famiglia, i racconti di chi veniva in Europa tra coloro della mia famiglia che erano rimasti in Medio Oriente. D’altra parte, la mia era un’educazione del tutto italiana.
Gli armeni erano pochi in Italia; non c’erano scuole armene, non c’era
una vita comunitaria, a Padova eravamo in tutto tre famiglie e ci si
vedeva poco. Ci si incontrava alla Pasqua all’isola di San Lazzaro degli Armeni a Venezia. Capisci cosa vuol dire essere in pochi: all’epoca gli armeni in tutta Italia erano solo 2000, forse ora circa 4000! Infatti, la maggior parte degli armeni approdati in Italia dopo la tragedia del genocidio sono in seguito andati in Francia, dove la comunità conta più di mezzo milione di persone e dove ci sono scuole, chiese, luoghi d’incontro; c’è tutto un tessuto civile umano e sociale pronto ad accoglierli.
Dunque, nella mia famiglia non era tanto esibita l’appartenenza armena. Una parte di me si arricchiva dei racconti dello zio di Aleppo, quello di cui parlo nel romanzo perché ha salvato i bambini. Lo zio, Zareh, era un medico molto conosciuto che viveva appunto ad Aleppo. La nostra era tutta una famiglia di medici: il nonno era il primo di quattro se non cinque fratelli, tutti medici. Due di questi zii vivevano in Siria, uno ad Aleppo, l’altro a Damasco. Il maggiore era mio nonno, che si stabilì in Italia e fece carriera: era molto conosciuto sia come studioso che come geniale chirurgo. Ma nemmeno mio papà conosceva l’armeno, e dunque quando venivano i fratelli del nonno parlavano in francese tra loro. La volontà del nonno dopo il genocidio fu infatti di italianizzare il più possibile la famiglia.

Non è un memoir, io non sono una testimone; il materiale della storia lo tenevo dentro di me, erano i racconti del nonno e li ho riportati come si erano impressi nella mia memoria. Tutto era circonfuso da un alone di desiderio di conoscere il passato e dal fascino della lingua morbida e musicale che parlavano tra di loro
Come emerge e in che circostanze si manifesta la tua identità armena?
La mia origine armena la percepivo come qualcosa di curioso, pittoresco, un particolare che mi rendeva orgogliosa, ma io nemmeno parlavo armeno! Poi sono stata affascinata da ciò che riguardava questo nonno così importante, che mi aveva voluto bene e che mi aveva raccontato la storia della famiglia. È questo che io racconto nella Masseria. Che non è un memoir, io non sono una testimone; il materiale della storia lo tenevo dentro di me, erano i racconti del nonno e li ho riportati come si erano impressi nella mia memoria. Tutto era circonfuso da un alone di desiderio di conoscere il passato e dal fascino della lingua morbida e musicale che parlavano tra di loro, e che viene chiamata franco-libanese.
Fino a quel momento eri stata una studiosa e ti eri dedicata alla letteratura italiana dell’Ottocento…
E del Novecento. Prima di tutto ho scritto un libro su Dino Buzzati che ora è stato ristampato, un piccolo libro che faceva parte di una collana della Mursia degli anni ’70-’80 che si chiamava Invito alla lettura, dedicata agli scrittori italiani del ‘900. Fui, per caso, una delle ultime persone a scegliere lo scrittore di cui occuparsi, ed era ancora libero Buzzati, uno scrittore che a me piaceva molto. E dunque mi andava bene scrivere di lui, anche se Buzzati non è mai piaciuto molto alla critica ufficiale, compreso il direttore della collana, che avrebbe preferito che io ne parlassi male…
Ho sempre amato occuparmi di scrittori che non erano sulla cresta dell’onda della critica. Prendi per esempio Luigi Capuana: mi interessava soprattutto per il discorso della scrittura per ragazzi, perché tutti gli scrittori importanti dell’Ottocento scrivono anche per ragazzi! Noi conosciamo Collodi ma sono molti (e fra loro molte donne) quelli che hanno scritto cose assai interessanti, da rileggere.
Una caratteristica che nella letteratura del Novecento si è persa in Italia, mentre in Israele, ad esempio, quasi tutti gli scrittori hanno scritto anche qualcosa per ragazzi…
È vero, questa specie di albagia e sdegnoso senso di superiorità della nostra cultura ufficiale nei confronti della narrativa per ragazzi, io non la capisco! In realtà la scrittura per ragazzi non è facile, richiede originalità , non contano recensioni o amicizie, conta il lettore. E Capuana scriveva dei libretti per ragazzi che sono adorabili. Una scoppiettante invenzione, per esempio, si chiama Tirititùf!, un libro che conosco quasi a memoria. È una fantasia fantastica tenuta insieme benissimo, molto più fresco del suo romanzo più famoso, il manifesto del verismo, Giacinta, che invece mostra proprio la corda.
E le scrittrici?
Ecco, le scrittrici. Era un potente movimento femminista quello del secondo Ottocento, era molto sviluppato e molto rispettato, molto di più di quello che il femminismo successivo credeva. Pensa a Sibilla Aleramo, la quale tuttavia come scrittrice era piuttosto modesta. La fortuna della Aleramo va contestualizzata: lei era un personaggio, la sua vita privata è interessantissima. Era una donna molto libera che ha abbandonato non solo il marito ma anche il figlio, e questo le ha creato un senso di colpa e di vuoto interiore che la portò a cercarsi uomini sempre più giovani di lei. Ma di scrittrici più interessanti dal punto di vista letterario ce n’erano molte.
Da questo interesse nascono alcune tue pubblicazioni come Dame, regine e galline (edizioni Guerini, 1999). Evidentemente tu hai un’inclinazione a portare alla luce cose che prima non erano note. L’hai fatto con queste scrittrici, l’hai fatto con gli armeni. Tornando ai nostri giorni. Ho qui davanti a me Il Libro di Mush, un’edizione molto elegante di Skira: un bel libro che questa casa editrice ha trasformato anche in un bell’oggetto. Mi ha fatto scoprire il ventaglio di registri stilistici che sei in grado di maneggiare, qui usi una lingua alta, una lingua lirica molto diversa da quella che usi in altri romanzi, una lingua che si adatta al contenuto.
Il Libro di Mush, un libro importante che ci svela una storia vera, anche se romanzata, e che ancora una volta fa riferimento al popolo e alla cultura armeni…
Il Libro di Mush parla dello sterminio degli armeni che vivevano nella valle di Mush. E del salvataggio del Libro che è un’opera miniata di epoca medievale da parte di due giovani donne, aiutate da un piccolo gruppo di sopravvissuti in fuga. Ti racconto come sono arrivata a scrivere questo libro: mi cercò Eileen, la figlia di Sergio Romano, che dirigeva una collana per Skira. L’idea era di pubblicare una serie di romanzi brevi che raccontassero una storia collegata ad un’opera d’arte. Uno dei primi usciti era di Camilleri, che aveva scritto di un Renoir scomparso in Sicilia. Renoir, durante un viaggio ad Algeri, si era fermato in Sicilia e lì aveva dipinto dei quadri poi scomparsi. E Camilleri raccontò questa storia.
A me pareva un po’ alla volta di esserci dentro, e così ho cominciato a leggere tutto quello che c’era da leggere sulla valle di Mush, ho trovato le foto delle donne sopravvissute, e un po’ la volta è riemersa la storia.

La Romano dunque mi incluse in questo progetto editoriale e mi propose di parlare di Sarkis Gulbenkian, il mecenate armeno di Lisbona, ma io non mi sentivo ispirata a parlare di lui e stavo per rinunciare. Capita che vado negli Stati Uniti e dopo una serie di conferenze a New York mi reco in California, dove vivono più di un milione di armeni. Ci ero già stata. La Masseria delle allodole era stata finalista al premio letterario del «Los Angeles Times» e l’università della California mi aveva anche dato un premio in quell’occasione. E là , durante una cena, racconto della proposta ricevuta e dei miei dubbi: una signora allora mi suggerisce di parlare del Libro di Mush. Subito mi vengono in mente i racconti di mio zio di Aleppo sullo sterminio degli armeni della valle di Mush.
Questa signora era la nipote di un sopravvissuto – va detto che pochissimi sopravvissero nella valle, perché i soldati turchi ammazzarono tutti, donne uomini e bambini – e mi fornì tante informazioni. Mi portò perfino un 33 giri con le canzoni tipiche della valle; mi parlò dei profumi di quel luogo, della sua struttura particolare, perfino di certi carciofi che crescevano solo lì. A me pareva un po’ alla volta di esserci dentro, e così ho cominciato a leggere tutto quello che c’era da leggere sulla valle di Mush, ho trovato le foto delle donne sopravvissute, e un po’ la volta è riemersa la storia.
Hai capito che anche lì c’era qualcosa da portare alla luce…
Ho capito che anche lì c’era un tesoro sepolto. La storia è vera, e andava ricostruita: ho cercato le foto del libro di cui si parlava e vedo che effettivamente era un manoscritto del 1202, alto un metro e pesantissimo, con bellissime miniature. Il mio l’ho scritto in poco tempo. La parte romanzesca riguarda queste due ragazze, che ho chiamato la prima Kohar, come la signora che mi aveva spinto a scrivere proprio questa storia, e l’altra Anush, che è un nome dolcissimo tipicamente armeno. Poi ci ho messo dentro una coppia di greci: mi piace sempre mettere insieme i due popoli maltrattati, greci e armeni. E devo dire che per me è stata una gioia scriverlo.
E adesso il libro finisce il suo giro del mondo perché verrà tradotto in inglese a cura di una casa editrice californiana…
Uscirà il 20 aprile col titolo Silent Angel, perché c’è un angelo muto che attraversa tutta la storia e ne è il filo conduttore e appena possibile farò il giro di presentazioni che in questo periodo è stato ovviamente impossibile. La casa editrice è la Ignatius Press, di San Francisco.
Anche questo potrebbe diventare un film, sarebbe la seconda volta.
Il cinema è un campo in cui la Turchia dispiega una grande potenza di fuoco. Riesce a far fallire, a stoppare quasi tutti i progetti di film che vorrebbero trattare della tragedia. La mia parte armena è riconoscente in modo incredibile ai fratelli Taviani, che hanno fortemente voluto il loro film La masseria delle allodole e sono riusciti a realizzarlo, anche se hanno trovato delle grandi difficoltà , sempre crescenti, a causa della censura turca.
In Medio Oriente i poeti hanno sempre in mente un ritmo musicale, ed è per questo che la loro poesia può essere cantata. E dunque rispettare la musicalità , la lunghezza, i ritornelli con le loro minime variazioni era il lavoro più difficile.
Parlando di turchi e di armeni, non possiamo non ricordare l’importanza che ha avuto il poeta Daniel Varujan per la diffusione della cultura armena.
Nel 1992 è uscita la tua traduzione in italiano de Il racconto del pane di Varujan. Che rapporto ha Antonia Arslan con la lingua armena?
Non la parlo, posso capirla un po’, ma non certo per tradurre un poeta che ha una grande ricchezza linguistica. Varujan è uno dei grandi poeti del primo Novecento europeo, crea parole, le modifica, alcune sono antiche altre moderne, fa un impasto linguistico straordinario. Per la traduzione dall’armeno all’italiano ho avuto la collaborazione di una italo-armena laureata in armeno a Ca’ Foscari e di un armeno iraniano che studiava a Padova. Prima con lei sola e poi anche con lui ho fatto un lavoro paziente, minuzioso ed entusiasmante, da amanuense medievale. Dapprima l’ho ascoltato da loro, letto a voce alta, poi l’abbiamo tradotto parola per parola in modo letterale.
La difficoltà sta nella scelta che ho fatto di rispettare la lunghezza dei versi: le traduzioni spesso alterano la sequenza dei versi, come ad esempio la traduzione francese. Ma in Medio Oriente i poeti hanno sempre in mente un ritmo musicale, ed è per questo che la loro poesia può essere cantata. E dunque rispettare la musicalità , la lunghezza, i ritornelli con le loro minime variazioni, era il lavoro più difficile. Ad esempio, spesso Varujan all’inizio di ogni strofa usa lo stesso verso ma cambiandolo un po’, come in una canzone. Quindi la traduzione francese mi è servita ben poco. Una volta sentito varie volte il testo, e vista la traduzione letterale, mi ci immergevo.
Avevi già un editore per questa opera?
Mi sono rivolta ad Angelo Guerini, che già conoscevo. Gli ho detto che Varujan era un poeta straordinario e gli ho chiesto di stamparlo: se non avesse venduto abbastanza copie avrei comprato io stessa quelle rimaste. Poi Franco Loi, del tutto inaspettatamente, scrisse una splendida recensione, altre ne seguirono, e l’edizione si esaurì in brevissimo tempo.
Come è finita?
È finita che ha già fatto 8 edizioni, capisci 8 edizioni di un poeta sconosciuto, poi su di lui sono stati fatti un paio di spettacoli teatrali e viene letto in molte scuole.
Con Luciana Castellina in una precedente intervista abbiamo parlato del poeta turco Nazim Hikmet. Tu stessa mi hai detto che Hikmet ha dedicato due poesie al popolo armeno.
Che sono censurate, non si trovano nella pubblicazione della sua opera omnia. Hikmet è stato perseguitato dal suo governo, è un personaggio straordinario. Ma ci sono molti altri turchi che hanno cercato e detto la verità , come il famoso storico Taner Akçam o il giornalista Hasan Cemal, nipote di uno dei massimi responsabili del genocidio. Anche oggi ce ne sono, e sfidano la persecuzione politica, sfidano la prigione.
Abbiamo parlato di confini geopolitici e invece adesso siamo alle prese con una pandemia mondiale che non ha confini. Molti si stanno chiedendo se alla fine ci risveglieremo dall’incubo ritrovandoci uguali a prima o se saremo cambiati.
Anch’io, certo, me lo domando. Ma mi domando anche: nel passato, la gente usciva cambiata dopo le pestilenze? Quanto cambiata? Questo virus è pericoloso perché è molto facile il contagio ma non è ad elevata mortalità , e conviene ricordarlo, con tutto il dispiacere per i morti. Fra l’altro, io stessa sarei fra le persone da buttare nelle scoasse (per dirla alla veneta…) se scegliessero chi curare in base all’età , per cui figurati se non penso che sia una tragedia, ma non so davvero se saremo così avveduti e maturi da uscirne proprio cambiati.
Mi viene in mente quando dopo le Torri gemelle si diceva: non saremo più come prima… Speranza messianica!
È esattamente quello che penso. Non credo che l’animo umano possa cambiare così facilmente, questo facile preconizzare che poi saremo tutti diversi mi sembra una reazione dovuta all’emergenza; finita l’emergenza la gente riprenderà la sua vita, andranno di nuovo a vedere le partite di calcio e a prendere l’aperitivo senza molto badare a chi hanno vicino…
Se subisci un lutto molto doloroso questo può produrre in te un cambiamento.
È proprio così. Infatti, oggi sono due mesi che è mancato mio marito, Paolo.
Ho letto che vi siete conosciuti ai tempi del liceo.
Sì, al Tito Livio. Io ero nella sezione E e lui nella F, e per tutti gli anni del liceo ci fu una gara accanita tra noi due e fra le nostre sezioni per primeggiare.
Dalla competizione è nato l’amore?
In realtà ai tempi del liceo io sapevo i voti che prendeva lui e lui quelli che prendevo io, ma non c’era niente di più. Il momento vero del nostro incontro è stato negli anni dell’università , a un concerto alla Sala dei Giganti a Padova, e da allora non ci siamo più lasciati: una decisione presa dopo quindici giorni e durata per sempre. Abbiamo stabilito subito un’alleanza profonda che non è mai venuta meno. Ma in realtà un lutto profondo ti cambia qualcosa dentro, ma non cambia la tua personalità . E forse nemmeno il coronavirus…
Allora, una rifflessione sul libero arbitrio la lasciamo al prossimo incontro…